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Il lavoro che cambia

Relazione di Giovanni Talpone al seminario della FIOM Lombardia


Da: Forum


(Questa relazione è stata significativamente modificata rispetto al testo consegnato al seminario, soprattutto per stimolo della stessa discussione seminariale).

A mio parere è possibile descrivere la maggior parte degli aspetti principali della trasformazione in corsi del modo di lavorare a partire da quattro assi, o dimensioni fondamentali: la complessità, il tempo, il denaro e le forme di dominio.

LA COMPLESSITA'

La complessità è una conseguenza, a lungo sottovalutata, dello sviluppo delle forze produttive. Contrariamente alla convinzione largamente diffusa nel movimento operaio del passato, secondo la quale lo sviluppo del capitalismo tendeva a una riduzione della complessità (e in effetti la fase fordista ebbe aspetti che andarono in questo senso), da decenni la crescita esponenziale della varietà di prodotti, di materiali, di tecniche, unita alla varietà di situazioni geografiche, sociologiche, culturali, legislative in cui le produzioni si svolgono e i prodotti stessi vengono utilizzati, dilata a dismisura le combinazioni produttive dotate di potenziale validità economica. Ciò ha conseguenze molto importanti sull’organizzazione del lavoro e più in generale su tutta la gestione del sistema economico:

  1. è sempre più difficile prendere decisioni a largo raggio e a lunga scadenza: non solo è necessaria una quantità di informazioni tanto maggiore quanto più si vuole allargare l’orizzonte delle decisioni, ma persino il reperimento, la verifica, l’elaborazione delle informazioni già acquisite all’interno del sistema decisionale è un compito esse stesso sempre più complesso: è sempre più difficile sapere ciò che si sa;
  2. ogni singolo soggetto economico cerca di dotarsi di strumenti di acquisizioni ed elaborazione delle informazioni sempre più potenti (da qui l’enorme espansione dell’industria informatica); ma ciò aumenta la complessità del sistema globale, lo rende sempre meno ovvio, prevedibile: e quindi ancora, ricorsivamente: è sempre più difficile prendere decisioni a largo raggio e a lunga scadenza.

Tutto ciò non solo ha portato a un’espansione dell’occupazione nel settore informatico nel suo complesso, ma anche a una trasformazione molto profonda dell’impiegato come ruolo sociale e produttivo: il quale una volta doveva supplire manualmente, compiendo interminabili operazioni ripetitive, all’esigenza di elaborazioni amministrative (per le quali non c’erano strumenti automatici); oggi deve navigare nel casino, cioè gestire tutto il resto, tutto ciò che gli elaboratori non fanno ancora, non fanno bene, forse non potranno mai fare. Ciò in qualche modo lo inserisce processo di presa delle decisioni, lo avvicina ai livelli direzionali (creandogli quindi aspettative, illusioni di status); ma in un contesto in cui si è dilatata enormemente l’area in cui si devono prendere continuamente microdecisioni in condizioni di elevata incertezza.

Questo crea una contraddizione oggettiva, sulla quale, credo, non molti hanno lavorato: se è sempre più difficile rivendicare status e privilegi per questa decisionalità quotidiana, anche perché condivisa con gran parte del lavoro autonomo, dei tecnici e degli operai specializzati, è anche vero che ciò comunque richiede un certo grado di consapevolezza, di riflessione, di capacità di apprendere, di libertà di iniziativa: abbassa la barriera culturale con le capacità proprie dell’alta direzione aziendale e rende potenzialmente più facile la critica e la proposta di alternative; dal punto di vista storico-politico, l’esplosione della complessità ha spazzato via i presupposti stessi della "sinistra pianificatrice" (sia di origini socialdemocratiche e riformiste che "sovietiche"): ciò per il momento ha dato luogo solo a un frettoloso accalcarsi verso posizioni neoliberiste, a volte pateticamente ingenue, e ad autocritiche un po’ kitsch. Purtroppo non ha ancora dato vita a un’elaborazione sufficientemente robusta circa la possibilità di governare democraticamente la complessità sociale, e questo vuoto viene pagato a caro prezzo dal movimento dei lavoratori, che spesso finisce per accettare acriticamente valori, presupposti, metodi, parole d’ordine organici al potere e alle scelte delle sue controparti.

IL TEMPO

La compressione dei tempi di lavoro, pur reso possibile dallo sviluppo delle forze produttive, è in realtà imposto dai rapporti di produzione vigenti. L’aumento della ricchezza sociale è più che mai descritto quasi esclusivamente come incremento della ricchezza monetaria: l’uso di questo descrittore non è neutrale, perché rappresenta la ricchezza sociale da una parte in modo decontestualizzato (si può essere ricchissimi e con la salute rovinata dallo sforzo di arricchirsi, per esempio) dall’altra in modo personale, come soldi-miei-e-non-tuoi (Pensiamo a quante cose importanti non si possono descrivere in questo modo: quanto vale l’ossigeno dell’atmosfera terrestre? E l’insieme delle conoscenze umane?) . Il capitalismo è nato incrementando questa forma di ricchezza privata, creando un mondo produttivo liberato dai vincoli feudali, giocando il dinamismo contro la staticità delle comunità tradizionali, descrivendo la ricchezza come proprietà privata di beni dotati di un valore monetario il cui ammontare deve crescere indefinitamente, e nel più breve tempo possibile.

Lo sviluppo delle forze produttive ha reso possibile la smaterializzazione di molte merci e la finanziarizzazione mondiale dell’economia: i soldi-miei che devono crescere più rapidamente dei soldi-tuoi. Ciò ha orientato nel profondo tutte le decisioni produttive ai risultati di breve periodo: gli unici che interessano agli ormai celebri (o famigerati) fondi pensione americani. Ciò significa che tutto il resto (ricerca scientifica e tecnologica a lungo termine, sviluppo professionale, impatti a lunga scadenza, politiche di sviluppo dei Paesi, ecc.) semplicemente non ha più molta importanza, quando non costituisce un intralcio. D’altra parte, le persone che ricoprono gli incarichi di alta direzione delle imprese vengono cambiate ogni pochi anni: perché dovrebbero preoccuparsi di ciò che accadrà dopo di loro? Le grandi carriere si fanno mostrando risultati (normalmente espressi in termini monetari) nel periodo di propria competenza, e lasciando costi e problemi ai successori.

Questa indifferenza al lungo termine costituisce un contrasto strutturale fra interessi delle imprese ed esigenze dei lavoratori, intesi sia come prestatori d’opera che come persone complessive. La sicurezza, la crescita personale, la difesa della salute, il rispetto per il territorio, il diritto a non lasciare il lavoro stravolti dalla fatica, le esigenze della famiglia sono tutti valori di interesse marginale per l’azienda, quando non costituiscono costi e vincoli onerosi.

La compressione dei tempi è uno degli elementi centrali nella trasformazione dell’organizzazione del lavoro e nella scelta degli strumenti: pensiamo alla penetrazione nei tempi di vita che permettono i telefoni cellulari, gli elaboratori installati presso le abitazioni o portatili dei telelavoratori, il diffondersi dei turni di reperibilità. (Come se la vita personale non fosse altro che il tempo residuo non utilizzato dalle aziende). Fare di più e fare soprattutto più presto, rispondere in tempo reale. (Come se i tempi dell’indugio, del riposo, della riflessione, della contemplazione fosse irreali, falsi). Le scelte tecnologiche si bruciano in pochi anni, talvolta in pochi mesi; e dietro esse, ci sono stabilimenti che chiudono, persone impossibilitate a progettare stabilmente la propria esistenza, lavoratori preparati a mansioni che sono scomparse persino prima della fine del loro addestramento.

Anche da punto di vista culturale si sta perdendo la sensibilità alla profondità storica: tutto deve essere "nuovo", ciò che non lo è, risulta patetico, imbarazzante, deve essere eliminato e dimenticato (ma anche molti esseri umani non sono più tanto nuovi ...) Pensiamo ai mass media, dove tutto sembra sempre contemporaneo, dove le cose di ieri non si sa dove finiscano. Se i lavoratori sono convinti nel profondo che l’orologio, il calendario, l’agenda dell’impresa capitalistica siano quelli giusti, anzi gli unici possibili, e si tratti solo di trovare il modo di mettersi al passo, allora non verrà mai il loro tempo, il tempo delle loro esigenze di esseri umani. Anche qui si paga duramente l’aver accettato l’orizzonte delle scelte della controparte: le battaglie sui tempi sono quasi sempre difensive, quasi un privilegio di chi comunque ha ancora un interlocutore con cui prendersela. Per tutti gli altri, i tempi sono quelli del sistema: imposti da tutti e da nessuno. L’eclissi della politica, intesa come volontà di scegliersi un futuro, isola il movimento dei lavoratori: nessun altro ha più il tempo di occuparsi del tempo.

IL DENARO

Questo è un capitolo inserito ex novo dopo il seminario, durante il quale veniva continuamente posta la questione del come quando quanto contrattare la retribuzione delle nuove forme di lavoro. Cercherò ora di dire che questa troppo facile reazione alla trasformazione non è neutrale, e può essere così riduttiva da diventare poco credibile e alla lunga perdente.

Immaginiamo i salari o gli stipendi come composti da tre panieri. Nel primo mettiamo i beni essenziali: l'alimentazione, l'abbigliamento, i consumi domestici ecc. ma anche i biglietti per uno spettacolo o un viaggio importante, l'acquisto di un libro, il collegamento a Internet ecc.. Nel secondo paniere collochiamo tutte le spese, anch'esse indispensabili, ma indotte dalla cattiva gestione della società e del territorio: le bottiglie di acqua minerale (perché l'acqua del rubinetto non è più bevibile), i trasporti quotidiani (le aziende hanno "ottimizzato" la loro gestione economica trasferendosi da sedi raggiungibili dai mezzi pubblici a luoghi sperduti e scomodi, che obbligano all'uso dell'automobile), le spese sanitarie, quelle per l'educazione dei figli, la previdenza (privata!) per la vecchiaia, la blindatura delle case ...
Le voci del secondo paniere corrispondono tutte a delle sconfitte del movimento dei lavoratori, e a possibili contenuti di una lotta politica che si proponga di rompere le compatibilità, le convenienze, gli obblighi dettati dal liberismo. Ma, intanto, queste sono spese da fare per i lavoratori e le loro famiglie.

C'è poi un terzo paniere, composto da tutte quelle spese che ben poco aggiungono, e spesso tolgono parecchio, al benessere quotidiano, ma sono dettate da una normalità confezionata con grandi investimenti di marketing e trasmessa dalla televisione e dalle riviste: spese che hanno bisogno di denaro, denaro che chiede al lavoro di prendersi tutti i tempi e tutte le energie della vita.

Stiamo attenti a contrattare, compagni: perché se è giusto difendere i primi due panieri (e non è affatto scontato di riuscirci), nel terzo c'è l'egemonia completa della cultura capitalistica: il consumismo, cioè il tentativo di soddisfare qualsiasi esigenza umana con delle merci. Voglio dirlo in modo secco: avvallare, come Sindacato, la richiesta di crescente potere d'acquisto anche per il terzo paniere, anche per le ragioni più belle del mondo: rappresentare i tecnici, gli impiegati, le professionalità alte ecc. è una pericolosa illusione e può portare il movimento dei lavoratori nel suo complesso alla sconfitta.

  • E' una illusione pericolosa perché questa bulimia di denaro e di merci copre il senso di crescente alienazione verso i contenuti e il senso del proprio lavoro: se la distanza fra ciò che si può pensare e desiderare e ciò che si fa effettivamente tutti giorni cresce a dismisura, allora ci si può illudere di riempire questo vuoto con consumi e gratificazioni materiali. Che però, come tutte le false soluzioni, danno assuefazione: e quindi si vuole sempre di più e al contempo ci si sente sempre di più fregati.

  • Questa linea porta alla sconfitta perché le condizioni conquistate dai movimenti dei lavoratori nel Nord del mondo non potranno assolutamente più essere difese se i disperati del Sud continueranno a premere alle porte, disposti a fare qualsiasi cosa pur di sopravvivere un giorno in più. L'unica linea razionale e non nazista è quella di finanziare politiche di sviluppo solidale ed ecocompatibile per il Sud: ma ciò difficilmente si può fare ampliando ed esibendo nel contempo i nostri sperperi. Come Sindacato, continuare a sostenere che Pecunia non olet (quando debitamente contrattata, si capisce) è un puro e semplice suicidio culturale, umano e politico.

Il percorso su cui si dovrebbe incominciare a ragionare non è tanto una riproposizione della cultura dell'austerità, ma piuttosto l'esplorazione seria e approfondita dei problemi, delle contraddizioni, delle trasformazioni organizzative e sociali entro cui si trovano a operare le cosiddette "professionalità alte". Trasparenza del mercato del lavoro e dei profili professionali, diritto a periodi di riqualificazione (anni sabbatici ...), tutela della proprietà intellettuale, spazi per forme inedite di impegno umano e sociale, problemi sanitari specifici (disturbi alimentari e del riposo, sovraffaticamento, abuso di psicofarmaci ...), fino alla stessa ridiscussione dei concetti di "servizio" che il Sindacato può fornire e di "delega" che può ricevere da questi lavoratori: questi sono solo alcuni dei temi che potrebbero permettere di indebolire le istanze più immediatamente corporative e ridisegnare il ruolo sociale di dirigenti e professionisti.

LE FORME DI DOMINIO

Guardare è il primo atto del comando: per questo una volta gli stabilimenti avevano accanto le palazzine degli uffici. Questa evidente relazione di dominio ormai la sia ha quasi più solo nelle imprese padronali: gli stessi capannoni si sono divisi e fatti più piccoli. Dietro questo processo c’è stato un grande aumento della capacità di controllo a distanza: non solo in termini di comunicazione, ma anche e soprattutto di capacità di descrivere in modo esaustivo processi e prodotti, eliminando tutte le aree grigie di "sapere operaio", di discrezionalità, di artigianato. Sotto sigle molto tecniche come CAD-CAM, MRP, ecc. c’è la possibilità per il progettista, il tecnologo, l’esperto di logistica di descrivere in modo così accurato l’oggetto del proprio lavoro, da poter generare in modo automatico, per esempio, le istruzioni per le macchine utensili a controllo numerico e per la pianificazione dei processi produttivi. E infatti, cos’altro sono le certificazioni ISO 9000 e successive se non il vanto aziendale di aver descritto in modo accurato e univoco ogni processo? Insomma, ogni fase di lavorazione, ogni movimento di prodotto è preceduto, accompagnato, seguito da una rappresentazione molto accurata di esso nella dimensione delle procedure gestionali e amministrative. Ciò ha una serie di importanti conseguenze nell’ambito dell’organizzazione del lavoro:

  • il processo produttivo può essere disaggregato e collocato in luoghi diversi senza che la direzione ne perda il controllo;

  • al livello delle operazioni materiali è necessaria sempre meno consapevolezza del sistema produttivo complessivo (da non confondersi con l’abbondanza di feedback: si pensi al metodo giapponese del Kanban, che è in grado di bilanciare continuamente il mix produttivo senza per questo dare un maggiore livello di consapevolezza ai lavoratori);

  • è possibile la valorizzazione economica dei semilavorati: ciò apre nuovi mercati, perché un semilavorato può essere una fornitura interessante per un altro produttore (o, viceversa, acquistare un semilavorato può essere una forma di esternalizzazione: make or buy);

  • è possibile comparare in modo accurato l’efficienza produttiva di due diversi stabilimenti, magari posti in due continenti diversi;

  • è possibile spostare la produzione, rapidamente e a bassi costi, da un Paese all’altro alla ricerca delle condizioni locali più favorevoli (per esempio, debolezza sindacale, repressione politica, assenza di controlli, efficienza logistica e così via).

Tutto ciò permette di separare fisicamente le fasi di manipolazione diretta dei materiali e dei componenti, da quelle dell’ideazione, della progettazione, del controllo, della distribuzione e dell’assistenza post-vendita: ciascuna di esse può essere affidata a una o più imprese giuridicamente indipendenti, a gradi diversi di partecipazione. Ciò porta con sé con il vantaggio aggiuntivo che saranno queste imprese senza autonomia reale a fare da testa di legno di fronte ai sindacati e agli enti locali, mentre i reali decisori sono altrove, al di là delle connessioni elettroniche, protetti da altri sistemi giuridici e contrattuali. Tutto ciò svuota l’idea tradizionale della contrattazione sindacale e della stessa sovranità politica: le concertazioni triangolari rischiano di avere un vertice latitante, un altro evanescente e il terzo ... molto incazzato.

Se in questo momento i partiti di riferimento dei lavoratori sembrano avere l’encefalogramma piatto per quanto riguarda le relazioni internazionali (fino al punto di aderire a una guerra che ha fatto strame di ogni diritto internazionale e di ogni autonomia europea), almeno potenzialmente le forze sindacali sembrano essere meglio attrezzate a creare collegamenti fra i lavoratori (a partire da quelli delle multinazionali) e a incominciare a ragionare in termini di vertenze transnazionali e diritto del lavoro europeo, cercando di costruire quella cittadinanza sociale comunitaria e mondiale che la politica della sudditanza agli interessi americani continua a negarci.

 

Milano, dicembre 1999

Giovanni Talpone (RSU IBM)