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[Relazione di Alfio Riboni]


Da: Forum


Rispetto al tema del seminario siamo riusciti ad allargare molto la discussione, invece sarebbe opportuno, proprio per un problema di concretezza, visto che ci accingiamo ad affrontare una contrattazione aziendale, trattare gli argomenti in modo mirato e specializzato.

Sulla questione dell’esternalizzazione parto da una affermazione fatta questa mattina dall’avv. Francioso: "se ci fate caso, da quando ci siamo adeguati alla "direttiva europea" con l’introduzione dell’articolo 47, le esternalizzazioni sono progressivamente aumentate e sono diventate un fenomeno quasi ingombrante dell’impresa italiana". Può sembrare che questo sia un fatto accidentale, ma non credo sia così, perché la traduzione o, meglio, lo stravolgimento della direttiva europea, ha introdotto la possibilità per le imprese italiane, in una fase di ristrutturazione e riorganizzazione degli assetti societari, di perseguire alcuni obiettivi già chiari in precedenza e ,tra questi, la costruzione dell’azienda a rete che, tradotto e per quanto ci riguarda, comporta lo spezzettamento dell’azienda per controllarla meglio e per ridisegnare il tessuto di relazioni sindacali consolidato nel corso degli anni.

Vengo dall'IBM, azienda che ha iniziato ad esternalizzare all’inizio degli anni ’90 ed ha fatto di tutto. Si potrebbe dire che, apparentemente, si tratta di una azienda schizofrenica, perché all’inizio il "must" era il core business, cioè il fatto che all’interno delle imprese rimanessero soltanto quelle funzioni che avevano una missione che si identificava con l’impresa stessa, ovvero la produzione e commercializzazione di computer e servizi si software.

Tutto quello che non era collegato a questa missione doveva essere esternalizzato.

All’inizio il comportamento sembrava effettivamente coerente con quanto appena detto: la prima esternalizzazione ha riguardato tutti coloro che si occupavano della manutenzione degli stabili, costituendo una azienda in cui IBM aveva una partecipazione di circa il 20%. La vicenda si è conclusa con una conciliazione giudiziale dove, tra le altre cose, ciò che ha consentito la conciliazione erano le garanzie occupazionali per questi lavoratori , ovvero il fatto che, nel caso in cui in futuro l’azienda avesse deciso di affidare ad altri la manutenzione dei propri stabili, il terzo interveniente doveva assumersi l’onere dei lavoratori che erano stati oggetto di conferimento in quella fase.

Le cose poi non sono andate così: l’azienda ha addirittura esternalizzato il core business, ossia ha ceduto il ramo d’azienda relativo all’information system, che è l’oggetto della azienda, la missione dell’azienda, creando una società di circa settecento persone completamente posseduta. Quindi non si capiva, neanche dal punto di vista dei costi, quale fosse il benenficio, perché comunque alla fine a pagare era sempre la casa madre. Ovviamente su questa esternalizzazione non è stato possibile trovare una intesa sindacale. Devo dire che non è stato possibile neanche trovare lavoratori disponibili a fare cause sulla illegittimità del trasferimento di ramo d’azienda.

Poi ne abbiamo avute altre, una simile alla prima: tutti i lavoratori che si occupavano della distribuzione delle macchine a chi le aveva comprate, con la costituzione di una azienda che per un po’ di anni ha vissuto di vita propria (si fa per dire), poi è stata reincorporata in Ibm ed è stata successivamente ulteriore oggetto di esternalizzazione.

Si potrebbero fare altri esempi, ma quello che mi interessa sottolineare è che dove sono stati fatti gli accordi sono stati fatti sulla base di due principi di fondo: le garanzie occupazionali, sia da parte dell’azienda acquirente che dell’azienda cedente, e il trasferimento dei diritti, in particolare di quelli che hanno un valore in termini retributivi, sia in forma diretta che indiretta, per il lavoratore.

Nella seconda fase l’azienda ha fatto l’esatto opposto: ha cominciato a reincorporare rami che erano stati oggetto di esternalizzazione e pezzi di altre aziende sulla base del principio dell’out sourcing.

Non sono d’accordo sull’uso del termine out sourcing nel caso del conferimento di ramo d’azienda, perché se facciamo questa similitudine creiamo solo confusione. L’out sourcing è un meccanismo di business per cui una azienda dice ad un'altra, ad esempio, "tu stai facendo paghe e contributi, smetti di farle, te le faccio io". Il fatto che poi si prenda i lavoratori di quella azienda addetti alle paghe e contributi è strettamente legato ai rapporti sociali all’interno dell’azienda cedente: se io azienda decido di cedere le paghe ed i contributi ad un’altra azienda, ho il problema di come impiegare i miei dipendenti addetti alle paghe e contributi .

Questo è il prezzo che chi vuole fare l’affare paga per poterlo fare.

Le esternalizzazioni sono un’altra cosa: sono conseguenza della decisione di separare dal corpo dell’impresa tutti ciò che non è ritenuto correlato alla missione dell’impresa.

A volte questo viene fatto in modo coerente, altre volte no. E, come diceva Cosimo Fracioso, in tutti i casi in cui non si configura il ramo d’azienda ci deve essere una opposizione da parte nostra.

Ma in Ibm c’è stata un’altra forma di esternalizzazione che giuridicamente non ha neppure le coperture degli articoli 47 e 2112: la cessione di contratto, ovvero quando un’azienda decide di non svolgere più una determinata attività e si fa dare il servizio da un’altra azienda che è sul mercato. L’esempio classico è la sicurezza: si decide di non tenere più all’interno della azienda il servizio di sorveglianza e ci si rivolge ad un’azienda che si occupa di servizi di vigilanza affinché garantisca la sicurezza, sia rispetto al patrimonio che all’informazione. In questi casi c’è una cessione di contratto e di attività, ed i lavoratori, a differenza dell’articolo 47, non vengono ceduti assieme all’attività, scatta un meccanismo ancora più bieco e feroce, perché in questo caso l’azienda dice ai lavoratori: hai la possibilità di dare le dimissioni ed io ti garantisco che l’azienda che verrà a dare il servizio di sorveglianza ti assumerà, ma stai attento, perché se non fai questo, non ti posso mandare per forza in quella azienda, ma fra qualche mese sosterrò che, siccome non svolgo più quella attività, ci sono le motivazioni del licenziamento per giusta causa, per giustificato motivo oggettivo.

Questa è un’altra forma di esternalizzazione che non ha nessuna tutela, che si è realizzata nel caso Ibm con in servizi di vigilanza.

Bisognerebbe domandarsi se questa è una modificazione di strategia dell’azienda oppure se è un elemento squisitamente tattico.

Il comando dell’azienda, il luogo dove si prendono le decisioni, in cui si organizza il lavoro e si ristrutturano le attività, a fronte delle esternalizzazioni cambia strategicamente o rimane lo stesso?

A mio avviso la strategia non cambia. La cessione è una scelta di ordine tattico che riguarda spesso i cosiddetti rami secchi: viene esternalizzata l’attività che rende meno in modo da portarla fuori da un contesto di solidarietà e di relazioni sindacali forti, per poi liberarsi del ramo secco liquidando l’azienda.

Questo è un altro elemento che viene sottovalutato quando si discute di questi problemi.

In realtà non cambia il controllo dell’attività economica dell’impresa, cambia la forma dell’impresa che ha bisogno di essere adeguata non solo al mercato, ma anche alle necessità di controllo ed utilizzo delle cosiddette flessibilità che il mercato impone.

Questo è l’elemento politico di fondo che deve informare l’analisi e l’elaborazione delle organizzazioni e delle rappresentanze sindacali per quanto riguarda il ragionamento relativo alle esternalizzazioni e la contrattazione aziendale.

Ultima riflessione. C’è un elemento determinante della contrattazione aziendale perché la contrattazione collettiva nazionale non è stata in grado di risolverlo: la questione dell’orario che attiene anche all’esternalizzazione ma, soprattutto, all’internalizzazione.

Abbiamo incorporato circa un mese fa il pezzo di una azienda Fiat che si occupava dei servizi software per la Fiat.

Si tratta di ottanta lavoratori circa sparsi ovunque con il grosso nella zona di Torino.

Questi lavoratori erano prevalentemente inquadrati in sesta e settima categoria e avevano sicuramente (i lavoratori di sesta sicuramente) il pagamento degli straordinari.

Uno dei problemi più grossi di questa internalizzazione è stato rappresentato dal fatto che in Ibm, ma credo in moltissime aziende metalmeccaniche, ai lavoratori di sesta e settima categoria non viene riconosciuto il pagamento dello straordinario.

Da un non recentissimo ma valido questionario fatto in Ibm sui tempi di lavoro (soprattutto dopo l’introduzione del telelavoro), risulta che in sesta e settima categoria, a seconda dell’attività svolta, si passa da una settimana media lavorata di 45 ore alle 52 ore settimanali, con una perdita completa di possibilità di controllo dell’orario da parte di chiunque, non solo delle Rsu.

Questo è un fenomeno preoccupante, perché molto esteso, che non siamo riusciti a risolvere in quanto nel contratto collettivo è saltata la banca ore per la sesta e settima categoria.

Secondo me deve rientrare prepotentemente nella contrattazione aziendale anche se, dal punto di vista formale, i padroni potrebbero eccepire che questa materia, essendo stata definita nel contratto collettivo, non può essere ripresa nella contrattazione aziendale.

Si tratta comunque di un elemento dirompente rispetto alla nostra capacità di controllare l’orario, l’organizzazione del lavoro, ma, soprattutto gli assetti delle aziende.

Perché se questo è un elemento di risparmio contrattuale per il datore di lavoro e di governo della retribuzione, anche le esternalizzazioni o le internalizzazioni sono fortemente influenzate dalla possibilità di spostare lavoratori, inquadrati nelle categorie più alte con profili professionali medio alti, all’interno di aziende dove c’è o non c’è il pagamento dello straordinario.

Un ultima battuta su una questione particolarmente sottovalutata, soprattutto dentro il sindacato, riguarda un’altra affermazione che faceva Cosimo Francioso nel suo intervento, quanto tracciava il confine tra la possibilità di difendere i diritti in aziende sopra o sotto i quindici lavoratori: sulla tutela del lavoratore dobbiamo riprendere la bandiera di chi tende ad estendere lo Statuto dei Lavoratori, o forme analoghe di tutela, anche ai lavoratori nelle piccole imprese, realtà importante del settore metalmeccanico.

Vorrei ricordare a tutti che c’è un referendum, per il quale Bonino e Pannella hanno raccolto le firme, che fa l’operazione esattamente opposta. E non mi pare ci sia molta vivacità.

Questa è una cosa vergognosa: è uno degli attacchi più feroci e violenti ai diritti dei lavoratori in questo paese.

Auspico che non si attenda la campagna referendaria come sono state raccolte le firme, ben più di quelle necessarie, nella più profonda e totale indifferenza: mi pare che questo sia in segnale di malessere sociale, di incomprensione dei rapporti di lavoro e di produzione, all’interno dei luoghi di lavoro.

Credo che su questo terreno abbiamo l’urgenza di recuperare un dibattito più ampio con l’opinione pubblica, proprio per evitare di trovarci domani in una condizione tale per cui quella che è oggi la situazione nelle imprese con meno di quindici dipendenti diventi la situazione in tutte le imprese del mondo del lavoro italiano.