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CORTE COSTITUZIONALE

Camera di Consiglio del 13.1.2000

ATTO DI INTERVENTO, MEMORIA E CONTRIBUTO ISTRUTTORIO SULLA LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELLE RICHIESTE DI REFERENDUM

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Per il COMITATO PER LE LIBERTA’ E I DIRITTI SOCIALI, costituito in Milano in data 2.12.1999, in persona del Presidente PAOLO CAGNA NINCHI nato a Cagliari l’11.2.1942 rappresentato e difeso dagli avv.ti prof. Piergiovanni Alleva, Amos Andreoni, Vittorio Angiolini e dall’avv. Pier Luigi Panici giusta delega a margine del presente atto ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv.Pier Luigi Panici in Roma, Via Otranto 18.

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La Corte Costituzionale è chiamata a decidere con sentenza (ex art. 33 l. 352/70) sulla legittimità costituzionale delle richieste di referendum.

L’interveniente Comitato per le libertà e i diritti sociali ritiene:

1) di essere legittimato ad intervenire nel procedimento ed a presentare una sua memoria e un contributo istruttorio;

2) che siano inammissibili e/o costituzionalmente illegittimi i referendum di seguito indicati.

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1. SULLA AMMISSIBILITA’ DELL’INTERVENTO DEL COMITATO PER LE LIBERTA’ E I DIRITTI SOCIALI.

Come è evidenziato nell’atto costitutivo del 2.12.99 (inviato ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati in data 20.12.1999) lo scopo del Comitato: "….è promuovere ogni iniziativa necessaria a contrastare l’abrogazione delle leggi che eventualmente saranno oggetto dei referendum popolari promossi dal Partito Radicale, che vengono indicati sotto il titolo "libertà di lavoro e d’impresa": collocamento al lavoro, tempo determinato, part-time, lavoro a domicilio, disciplina dei licenziamenti; sotto il titolo "fisco, previdenza e sanità": abolizione della ritenuta d’acconto, pensioni di anzianità, servizio sanitario nazionale, monopolio Inail; sotto il titolo "finanziamenti pubblici": finanziamento pubblico dei sindacati: patronati, trattenute associative e sindacali.

In particolare il "Comitato per le libertà e i diritti sociali" assumerà iniziative in sede giudiziaria avanti alla Corte Costituzionale al fine di far dichiarare la inammissibilità delle richieste di referendum; in sede politica al fine di contrastare l’abrogazione delle leggi suddette, davanti all’opinione pubblica e ai media per illustrare il contenuto antisociale delle richieste di abrogazione..."

Il Comitato è legittimato ad intervenire nel presente procedimento ed ad presentare una sua memoria e contributo istruttorio sulla base delle considerazioni che seguono.

Il metodo del contraddittorio, come confermano anche quanto alla procedura referendaria, gli artt. 32 e 33 della l. 25 maggio 1970 n. 352 e succ. modif. e integr., è criterio generale e fondamentale per lo svolgimento dei giudizi costituzionali: esso vale non solo a garanzia delle situazioni subiettive se del caso coinvolte nel procedimento, ma è altresì, anche per la Corte, criterio della ricerca della verità del diritto e dei fatti interpretati. Tornano alla mente le parole di chi, sin dal 1972, ricordava che il principio del contraddittorio svolge, in confronto al giudizio, un ruolo paragonabile a quello che il principio di maggioranza ha svolto e svolge rispetto alla decisione politica democratica.

Per quanto si vogliano sottolineare i lineamenti peculiari del giudizio costituzionale, in confronto ai procedimenti presso i giudici ordinari, questa prospettiva è altresì avvalorata dalla recentissima ed innovativa riforma dell’art. 111 della Costituzione.; la quale riforma, per il fatto di elevare il contraddittorio tra parti diverse e poste in condizione di parità a principio governatore di ogni processo, inserito significativamente nella seconda parte della Costituzione, dimostra appunto come il contraddittorio medesimo, nel nostro sistema giuridico, non sia soltanto un completamento del principio dell’azionabilità dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi dell’art. 24 cost., bensì sia altresì il logico completamento, nonché il presidio, dei principi di indipendenza e di imparzialità del giudizio.

In questo mutato contesto, è necessario più che opportuno, anche nella sede del giudizio di ammissibilità della Corte Costituzionale come già accade per altre fasi precedenti e successive della procedura referendaria, la presenza di uno specifico soggetto che si faccia portatore della posizione di quei cittadini, aventi il diritto al voto, i quali, non sottoscrivendo la richiesta referendaria , hanno mostrato di non avvertire l’esigenza del referendum e della sua approvazione.

E ciò per diversi motivi. E’ da segnalare anzitutto che anche i cittadini i quali non hanno sottoscritto la richiesta refendaria sono componenti a pieno titolo del corpo elettorale, quale organo costituzionale, e che , per ciò stesso, è inaccettabile che essi non abbiano voce nel giudizio innanzi alla Corte al pari dei sottoscrittori, per una decisione, come quella sull’inammissibilità del referendum, la quale è destinata oltretutto e fatalmente a ripercuotersi sulla loro libertà di partecipazione politica. Questo è vero tanto più oggi che, diversamente dal passato, il referendum, per la quantità e qualità dei quesiti prospettati agli stessi elettori, è utilizzato pressochè utilizzato pressochè alla stregua di un mezzo ordinario di partecipazione alla funzione legislativa.

Va poi, ed in stretta connessione, sottolineato che le posizioni, le quali non possono ovviamente essere individuali, non favorevoli all’approvazione del quesito referendario, trovano spazio per esprimersi, entro le procedure complessive di svolgimento del referendum, sia nella fase antecedente al giudizio della Corte (art. 32 della l. 352 del 1970 con succ. integr. e modif.), sia in quella successiva, come ha costantemente attestato la disciplina delle campagne elettorali. E’ dunque incomprensibile che un contraddittorio in punto venga a mancare proprio nella fase, che è una delle più delicate e da arricchire di garanzie per il carattere essenzialmente giuridico e costituzionale dei problemi coinvolti, del giudizio di ammissibilità della Corte.

L’Ecc.ma Corte non può interloquire con i "soli" presentatori del referendum, con un contraddittorio zoppicante ed anzi privo di ogni requisito per essere ritenuto tale.

Che il contraddittorio sarebbe difettoso, se non addirittura carente, è ulteriolmente comprovato dall’atteggiamento del Governo, il quale infatti preferisce non comparire in giudizio, proprio adducendo un principio di formale non ingerenza in un procedimento volto all’autodeterminazione del corpo elettorale su singole questioni: se il corpo elettorale deve aver voce, deve averla nella sua compiutezza, e non solo in quella parte che, dovendo ancora dimostrare di poter essere una maggioranza, ha sottoscritto il quesito referendario.

Una tale compiuta fisionomia del contraddittorio, nel giudizio sull’ammissibilità del referendum, non è d’altronde che lo specchio e la conseguenza indispensabile di quella "struttura binaria del quesito" su cui la Corte stessa ha insistito come elemento a cui deve essere improntata, secondo ragionevolezza, l’intera disciplina dell’istituto referendario (cfr. spec. Sent. N. 161 del 1995).

Il discorso poteva essere diverso in passato, quando il referendum, stante il carattere più strettamente ablatorio dei quesiti prospettati, era in buona sostanza una scelta tra la disciplina sino allora vigente e la sua secca abrogazione; in quella cornice, si poteva anche sostenere che, per chi non avesse sottoscritto il referendum, parlasse la legge stessa, in vigore e di cui veniva proposta l’abrogazione. Ma il discorso cambia radicalmente ora che è entrata nella normalità la prassi di prospettare quesiti tali da dar luogo, con l’eventuale approvazione del referendum, non ad una secca abrogazione della legge vigente, bensì ad una disciplina diversa nella sostanza, affidata alla "normativa di risulta": qui la scelta dell’elettore non è più tra il positivo ed il negativo, tra mantenere e togliere, ma è tra due alternative entrambe volte a disciplinare in positivo, ed in modo però differente, una medesima materia. Questa alternativa positiva, tra diverse discipline legislative, non può essere appunto rappresentata efficacemente, nel giudizio della Corte, se non mediante un contraddittorio a tutto tondo, che non lasci silente nessuna di queste scelte su cui verte il referendum

Non si ignora, peraltro, che la Corte si è mostrata preoccupata, di fronte alle richieste di un pieno contraddittorio, delle "precise scansioni temporali" e della "stretta successione cronologica" della procedura referendaria, che rischierebbero di essere messe a repentaglio "per effetto di un diffuso ed indiscriminato accesso di soggetti" (come si legge nella sent. N. 47 del 1991).

Sotto questo profilo, bisogna tuttavia aggiungere che il contraddittorio nel giudizio sull’ammissibilità del referendum, non è, come detto, tanto espressione del diritto alla difesa dell’art. 24 cost., quanto è soprattutto un completamento ed un ausilio all’istruzione di un giudizio che veda consapevolmente presenti, ed argomentate da chi ne sia persuaso, le differenti strade che si aprono e potrebbero aprirsi al Giudicante. Sicchè, sembra superabile il timore di una sorta di "affollamento del contraddittorio", che è uno dei problemi strutturali e permanenti della giustizia sulle leggi.

Nel caso nostro, quando ci fosse un contraddittorio che per moto proprio, e spontaneamente, si presentasse alla Corte come circoscritto a pochi soggetti rappresentativi delle diverse posizioni ed utile all’istruttoria, non si vede perché la Corte non dovrebbe giovarsene; quando invece il pericolo di un giudizio troppo affollato e dunque non efficiente dovesse manifestarsi, la Corte potrebbe sempre escludere apporti istruttori dei contraddittori non utili al giudizio, facendo uso degli ampi poteri ad essa conferiti per l’istruzione dall’art. 12 .

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2. SULLA INAMMISSIBILITA’ DI REFERENDUM ABROGATIVI DI PRINCIPI E DIRITTI COSTITUZIONALI.

La giurisprudenza costituzionale è fermissima sul punto che il referendum non sia ammissibile quando potrebbe travolgere scelte costituzionalmente vincolate: il referendum è inammissibile, cioè, quando – indipendentemente dalla verifica di legittimità della "normativa di risulta" – solo apparentemente tocca la legge ordinaria, mentre in realtà mette in discussione direttamente la Costituzione. Ciascuno dei referendum di cui qui si tratta, distintamente preso e con ulteriore attacco a regole o principi costituzionali specifici di cui si dirà tra breve, mira anzitutto a colpire il principio basilare limpidamente desumibile dagli artt. 3, comma 2, 4, 32, e 35 ss. Cost., su cui conviene intrattenersi subito.

La Costituzione, dopo aver nell’art. 4 tutelato il diritto di lavorare nel senso di svolgere "un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società" in qualunque guisa (sotto questo aspetto anche l’imprenditore è ovviamente un lavoratore), considera distintamente la situazione di chi lavora alle dipendenze di altri: il lavoratore subordinato, come a più riprese emerge appunto dagli artt. 35 e ss., è considerato dalla Costituzione, strutturalmente, permanentemente ed in via di principio, come un soggetto meritevole di una particolare protezione dalla forza, di fatto preponderante, di chi gli dà il lavoro.

Questo principio è alla base della indisponibilità – irrinunciabilità di singoli diritti dei lavoratori costituzionalmente protetti e non può in nessun modo essere cancellato nell’applicare o attuare sia l’art. 38 cost. (il quale non a caso fa carico allo Stato di "predisporre" o "integrare gli istituti pensionistici e previdenziali), sia l’art. 32 cost. o altre norme sui diritti sociali, sia, infine, le diverse misure da adottarsi più in generale per rimuovere gli "ostacoli" che "di fatto" limitano la libertà dei cittadini – lavoratori.

Ebbene, proprio in virtù dei possibili effetti di ciascuno di essi, i referendum sulla disciplina legislativa delle tipologie dei contratti di lavoro a termine, a tempo parziale e a domicilio, sulla tutela a seguito di licenziamento illegittimo, sul sistema sanitario nazionale, sulla normativa degli infortuni sul lavoro e su alcuni aspetti dell’associazionismo democratico e sindacale, con un collegamento il quale è qui rilevante perché oggettivamente desumibile dai singoli quesiti e sottolineato dalla significativa contemporaneità delle richieste referendarie, hanno come obiettivo comune proprio quello di eliminare, dall’ordinamento italiano e pertanto anche dalla Costituzione, proprio il principio della protezione dei lavoratori e quindi del loro trattamento differenziato, conseguente alla loro debolezza economica sociale.

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3. INAMMISSIBILITÀ DEL REFERENDUM ABROGATIVO DELLA LEGGE 20 MAGGIO 1970, N. 300, limitatamente all’articolo 18.

La formula petitoria di questo referendum riguarda l'abrogazione della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori) "limitatamente all'art. 18", nell’intento dichiarato di eliminare l'ordine giudiziale di reintegra nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato, fermo, però, il risarcimento patrimoniale. E' stato, anzi, precisato dai promotori che tale risarcimento dovrebbe essere proporzionale alla dimensione dell'impresa, e che a questo criterio dovrebbe attenersi la legislazione consequenziale. Per altro verso, l'intento di eliminare la tutela di reintegra non si estende, sempre secondo quanto dichiarato dal promotori, ai licenziamenti illeciti perché ispirati da motivo discriminatorio.

E', allora, agevole osservare che, alla luce dei consolidati orientamenti della Corte Costituzionale in tema di requisiti di ammissibilità dei referendum, il quesito deve essere valutato come non ammissibile, per evidente irrazionalità ed incongruenza della formula petitoria rispetto ai fini perseguiti dai promotori.

Difetta, invero, la chiarezza, intesa come "coerenza interna", perché l'oggetto della domanda è - come tra breve meglio si spiegherà - inadeguato al perseguimento dello scopo, e difetta, altresì, la coerenza "esterna", perché esisterebbe contraddizione tra parti incluse nel quesito referendario e normativa di risulta, dal momento che continuerebbero ad esistere disposizioni che contengono lo stesso principio normativo di quella di cui si vuole l'abrogazione e/o risultano ad essa strettamente collegate.

Sotto il primo profilo - quello della "coerenza interna" e, dunque, della "chiarezza" del quesito - va subito sottolineato che la disposizione dell'art. 18 Legge 20 maggio 1970, n.300 ha assunto, dopo la sua riformulazione ad opera dell'art. 1, Legge n. 108/1990 un contenuto e, soprattutto, una collocazione sistematica nell'ambito della disciplina limitativa dei licenziamenti ben diversi rispetto al passato.

La differenza fondamentale, di cui non si sono avveduti i promotori del referendum, è che il "proprium" di tale norma non può più essere identificato con la previsione della reintegra nel posto di lavoro concepita ed intesa come una tutela aggiuntiva, una tutela cioè che si è sommata, in certi ambiti applicativi, ad una generale, ordinaria ed originaria tutela solo risarcitoria prevista da precedenti, e permanenti, disposti legislativi (in specifico art. 8, Legge n. 604/1966), i quali, dunque continuerebbero o riprenderebbero ad operare come fonti di tutela appunto solo risarcitoria nelle situazioni che l'abrogazione referendaria avesse privato della tutela di reintegra.

Il fatto è, invece, che nell'attuale disposto dell'art. 18, Legge n. 300/1970 (come modificato dall'art. 1, Legge n. 108/1990) è concentrata tutta la tutela, sia risarcitoria che di reintegra, di cui possono fruire i lavoratori che operino nelle realtà produttive che lo stesso art. 18 identifica come suo ambito di applicazione: ambito costituito, come si sa, dalle unità produttive autonome con più di 15 addetti, o, in ogni caso, dalle aziende con più di 60 dipendenti in totale, comunque distribuiti in unità produttive.

Ne consegue che una volta che fosse stato abrogato l'art. 18 (il quale, come detto disciplina anche il proprio ambito applicativo) in quelle realtà produttive non opererebbe più nessuna tutela contro i licenziamenti illegittimi, né di tipo reale (reintegra), né di tipo risarcitorio.

Né potrebbe "espandersi" a quelle realtà produttive, il (più modesto) risarcimento solo patrimoniale che l'art. 2, Legge n. 108/1990 appresta per il diverso ambito applicativo da questa norma definito, che è quello delle aziende che abbiano fino a 60 dipendenti.

Invero, l'art. 18 Legge 300/1970 e l'art. 2 Legge 108/1990, hanno la medesima struttura: ognuna delle due norme prevede la sua sanzione per i licenziamenti illegittimi nei diversi ambiti che ciascuna prende in considerazione, e si presentano, in altre parole, come due monadi vicine ma senza comunicazione tra loro, come due aree confinanti ma nettamente separate.

Poiché si tratta di un punto di decisivo rilievo per giudicare dell'inammissibilità del quesito, - come quesito che nella sua formula petitoria pone gli elettori di fronte ad una alternativa non veridica, diversa da quella palesata nell'intenzione proclamata dai promotori - è opportuno soffermarsi ancora un poco sull'argomento per spiegare come e dove si sia determinato, nell'evoluzione legislativa, il cambiamento essenziale.

Si può dire, in estrema sintesi, che esso consiste nella novità strutturale portata dalla legge 108/1990 al sistema di protezione contro i licenziamenti, consistente nella circostanza che l'ambito applicativo della tutela (solo) patrimoniale è ora contrassegnato da un "tetto" o limite superiore, e non più, come in precedenza, da un "pavimento" o limite inferiore.

Va ricordato, invero, per illustrare la questione in maniera ora più distesa, che nel sistema originario precedente la Legge n. 108/1990 e la stessa Legge n. 300/1970, l'ambito applicativo della tutela risarcitoria - patrimoniale –(la sola all’epoca accordata dalla L.604/66 per i licenziamenti ingiustificati) era delimitato, appunto, da un limite inferiore, da un pavimento: la tutela risarcitoria prevista dall’art. 8 L.604/66 si applicava, per così dire, "dai 35 dipendenti in su " (art.11).

A ciò fu poi "aggiunta" dal combinato disposto dall'art. 35 e dall'art. 18 (testo originario) della Legge 20 maggio 1970 n. 300, la tutela reale di reintegra per i lavoratori addetti ad unità produttive autonome con più di 15 addetti, ed in un sistema così conformato si poteva pensare ad un effetto "espansivo" o "riespansivo" della tutela solo risarcitoria in caso di successiva abrogazione dell'art. 18. Ad esempio, un lavoratore adibito ad una unità produttiva con 20 addetti di un'impresa con 70 occupati complessivi, e dunque destinatario della tutela di reintegra dell'art.18, avrebbe potuto, nel caso di caducazione di quest'ultima norma, allegare di esser pur sempre dipendente di un'azienda con più di 35 dipendenti, e quindi di essere, quanto meno, destinatario della tutela risarcitoria prevista dall'art. 8 della Legge 604/1966.

Oggi non è più cosi: la tutela (solo) risarcitoria è prevista dall'art. 2 Legge 108/1990 per i lavoratori di aziende fino a 60 dipendenti (e che non siano addetti ad unità produttive con più di 15), ossia dai 60 dipendenti "in giù" (e non più "in su") con la conseguenza che quel "tetto" impedisce di estendere i disposti, a dimensioni produttive maggiori, per quanto ciò renderebbe, poi, paradossale la normativa di risulta.

Caduto, in ipotesi, l'art. 18, con il suo sistema sanzionatorio e con il suo ambito applicativo, resterebbe solo la tutela risarcitoria dell'art,2 Legge 108/1990, ma per l'ambito applicativo diverso ivi contestualmente definito, quello dei dipendenti da datori di lavoro che contino fino a 60 dipendenti occupati.

Nessun meccanismo normativo residuerebbe in grado di realizzare una estensione ad aree diverse. Dall'analisi ora condotta deriva la incoerenza della formula petitoria rispetto all'intento proclamato dai promotori, con conseguente difetto del requisito di chiarezza, giacchè l'elettore che pure volesse, ad esempio, che nelle imprese con più di 60 dipendenti trovasse applicazione la sola tutela risarcitoria, provocherebbe, con il suo voto a favore del quesito referendario l'incongruo effetto di far venire meno in dette imprese anche la tutela risarcitoria, contrariamente all'intento suo, e a quello proclamato dai promotori, ripristinandovi, addirittura, il licenziamento "ad nutum".

La situazione è simile quella che si è prodotta, ad esempio, con riguardo alla proposta referendaria di abrogazione della cassa integrazione guadagni dichiarata inammissibile con sentenza Corte Costituzionale n. 6/1995: in quel caso i promotori affermavano di voler abolire la CIGS straordinaria, ma di voler mantenere l’indennità di mobilità, senza considerare, però che la stessa indennità di mobilità presupponeva l'inclusione dell'impresa nel campo di applicazione dell'integrazione salariale straordinaria, o, addirittura un periodo di godimento della stessa. Con la conseguenza rilevata dalla Corte Costituzionale, nella decisione di inammissibilità del quesito, che l'alternativa vera proposta agli elettori passava non già tra conservazione della CIGS e sua soppressione "fermo restando" però il trattamento speciale di mobilità, bensì tra conservazione dell'istituto della CIGS e la liberalizzazione dei licenziamenti per ragioni economiche, con eliminazione anche del trattamento di mobilità.

Allo stesso modo, oggi, l'alternativa proposta agli elettori non passa tra conservazione della reintegra nel posto di lavoro, da un lato, ed abrogazione della reintegra con conservazione del risarcimento patrimoniale, dall'altro, bensì tra la conservazione della tutela reale di reintegra di cui all'art. 18 Legge 300/1970 e la libertà di licenziamento senza alcun indennizzo.

Analoga ragione di inammissibilità è stata ritenuta sussistente dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 40/1997 riguardante la richiesta referendaria di abrogazione della normativa che prevede, nella scuola elementare, l'impiego di tre docenti per due classi: anche in tal caso difettava la coerenza della formula petitoria perché l'abrogazione della norma non avrebbe affatto portato all'automatico ripristino dell'insegnante unico per ogni classe, cosi come voluto , invece, dai promotori., che dunque non offrivano agli elettori una alternativa né compiuta, né coerente con l'intero referendum.

Esistono, comunque, ulteriori e non meno evidenti ragioni di inammissibilità che riguardano la cosiddetta "coerenza esterna" (ovvero della completezza dei principio abrogativo), sotto il profilo della contraddittorietà della normativa di risulta rispetto al permanere di disposti legali autonomi, ma conformati al medesimo principio della norma abrogata.

Si tratta di un motivo di inammissibilità molte volte riscontrato dalla Corte Costituzionale con riguardo a quesiti referendari, e che, nel nostro caso, emerge sicuramente con riguardo, quanto meno, a due importantissimi nuclei della normativa: l'art. 3 della Legge 108/1990, che richiama l'art. 18 Legge 300/1970 come sanzione per i licenziamenti discriminatori, e l'art. 5 della Legge 223/1991 che, nella materia dei licenziamenti collettivi, sanziona con l'invalidità del recesso e l'applicazione della reintegrazione nel posto di lavoro ex art 18, la violazione sia delle procedure sindacali di riduzione del personale, sia dei criteri di scelta dei lavoratori licenziati.

In specifico si può dire che, per quanto attiene ai licenziamenti discriminatori, il motivo di inammissibilità può essere ricondotto, alternativamente, sia alla incoerenza "interna" che a quella "esterna": invero, se si ritiene che il richiamo all'art. 18 Legge 300/1970 contenuto nell'art. 3 Legge 108/1990 sia un rinvio formale, alla fonte, il vizio è di incoerenza interna, perchè si avrebbe l'automatica liceizzazione e liberalizzazione anche di questi licenziamenti, laddove è stata dichiarata intenzione dei promotori preservare per gli stessi non solo la tutela risarcitoria ma anche quella reale. Se, invece, si ritiene che si tratti di un rinvio recettizio alla sola sanzione, per essere costituito il vero portato innovativo dell'art. 3 Legge 108/1990 dalla estensione anche ai dirigenti della tutela di stabilità reale contro i licenziamenti discriminatori, si avrebbe un difetto di coerenza "esterna". Invero l'abrogazione referendaria dell'art. 18, farebbe cadere la tutela reale per gli operai, impiegati e quadri, che sono i soggetti originariamente tutelati dalla Legge 604/1966 recepita nel testo dell'art. 18, ma la conserverebbe per i dirigenti al cui licenziamento discriminatorio è stata estesa dalla nuova norma dell'art. 3 Legge 108/1990.

Ancor più netto è il difetto di completezza o coerenza esterna se osservato con riguardo alla fattispecie dei licenziamenti collettivi e specificamente all'art.5 della Legge 223/1991: è noto, invero, che la fattispecie dei licenziamenti collettivi è estranea alle previsioni della Legge n. 604/1996, che esplicitamente li escludeva dal suo ambito di applicazione, e dunque è estranea anche alla normativa di tutela dell'art. 18 della Legge n. 300/1970, la quale, a sua volta, esplicitamente riconnette la sua disciplina protettiva ai licenziamenti individuali che siano stati valutati come illegittimi ai sensi della Legge 604/1966.

Nell'art. 5, Legge n. 223/1991 il rinvio all’art 18, deve dunque essere inteso non come rinvio formale o alla fonte, bensì come mero rinvio alla disposizione sanzionatoria, il che significa, in altri termini, che l'art. 5 della Legge 223/1991 costituisce un'autonoma previsione di tutela reale di reintegra nel posto di lavoro, che si sarebbe, allora, dovuto ricomprendere nella formula petitoria, a pena di renderla inammissibile per incompletezza e contraddittorietà della normativa di risulta, giacchè si avrebbe che i licenziamenti individuali illegittimi sarebbero sanzionati solo con il risarcimento patrimoniale (o non sanzionati affatto, per quanto si è prima osservato); mentre i licenziamenti collettivi illegittimi darebbero luogo, invece, all'ordine di reintegra nel posto di lavoro.

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Vi è un ulteriore specifico profilo che rende inammissibile il quesito referendario sull’art. 18 l.300/70.

Con lo "Statuto dei lavoratori" sono stati resi "precettivi" alcuni principi fondamentali della Costituzione. Con notazione efficace fu affermato che con la approvazione dello Statuto finalmente "la Costituzione varcava i cancelli delle fabbriche". Con l’art. 18 l.300/70 si dava concretezza ed effettività al principio posto all’art. 4 della Costituzione: a fronte della illegittima privazione del "diritto al lavoro", la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro è appunto, una delle "condizioni che rendono effettivo questo diritto" secondo l’esplicito dettato costituzionale.

In altre parole il licenziamento affetto da invalidità (illegittimo, nullo e inefficace) non può comportare la perdita di un diritto, la cui tutela è posta tra i principi fondamentali della Costituzione (artt. 1, 2, 3, 4): l’art. 18 l.300/70 è la condizione di effettività della tutela del diritto al lavoro.

Appare dunque inammissibile il referendum che, in via diretta, si propone di abrogare tale principio costituzionale.

Mentre sarebbe ammissibile un intervento del legislatore che predisponga una nuova tutela o una diversa modulazione di essa, l’abrogazione totale di ogni sanzione per il licenziamento illegittimo, per l’ambito di applicazione previsto dall’art. 18 l.300/70, appare come eliminazione, per milioni di cittadini lavoratori, di un diritto costituzionale.

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4. INAMMISSIBILITA’ DEI QUESITI REFERENDARI RIGUARDANTI LA C.D. "LIBERALIZZAZIONE DEI CONTRATTI DI LAVORO A TEMPO PARZIALE, DEI CONTRATTI DI LAVORO A TERMINE E DEI CONTRATTI DI LAVORO A DOMICILIO": REFERENDUM ABROGATIVO della L. 19.12.1984 n.863, limitatamente all’art. 5; REFERENDUM ABROGATIVO della L. 18.12.1973 n. 877, limitatamente all’art. 2, comma 2° e agli artt. 3,4,5,6,7,8,9,10,11,12,13 e 14; REFERENDUM ABROGATIVO della L. 18.4.1962 n.230, limitatamente all’art. 1, comma 1° agli artt. 2,3,4,5 l. 3.2.1978 n.18, limitatamente all’art. 23.

I tre quesiti referendari possono essere esaminati congiuntamente, perchè sono accomunati da un medesimo intento dei promotori, e dalla stessa tecnica di formulazione: in sintesi le leggi speciali che disciplinano i tre istituti vengono abrogate lasciando sussistere solo la definizione generale, priva, però di contenuto regolativo.

Questo è vero, a ben guardare, anche per il quesito attinente il lavoro a domicilio, visto che l’unica disposizione regolativa superstite, quella che vieta di commettere a domicilio lavorazioni insalubri o pericolose, viene, comunque, privata della sanzione, contenuta nell’ art. 13 legge 877/1973, di cui viene chiesta l’abrogazione referendaria.

Lo scopo avuto di mira dai promotori è quello della "liberalizzazione" di questi tipi di contratto di lavoro, e a tale intento dichiarato e ripetuto a proposito di ogni quesito, occorre riconoscere un significato pregnante: quello che si vuole è che i suddetti tipi contrattuali non siano più regolati da normative speciali di tutela, che siano cioè ricondotti puramente e semplicemente al diritto comune dei contratti. Ma questo in modo permanente, perché solo l’esclusione permanente di discipline speciali integra una "liberalizzazione": un simile scopo, invero, non si raggiunge con la semplice ablazione delle discipline attualmente vigenti e storicamente determinate.

Proprio a questo proposito emerge, però, un primo profilo di inammissibilità delle richieste di referendum perché esse non appaiono univocamente dirette al fine propugnato dai promotori, risolvendosi nella semplice ablazione delle discipline vigenti.

Va ricordato il precedente costituito dalla sentenza Corte Cost. n.1/1995, che ebbe ad esaminare un quesito che nell’intenzione dei promotori avrebbe dovuto introdurre un divieto assoluto di trasmissioni pubblicitarie sulla rete RAI, ma che, in realtà, si risolveva nella semplice ablazione di normative specifiche: in ciò la Corte ebbe a ravvisare una assoluta ambiguità della richiesta referendaria, che non avrebbe consentito allo elettorato di approvare o respingere con la dovuta consapevolezza la proposta di abrogazione.

Allo stesso modo l’ablazione della disciplina speciale che regola il contratto di lavoro a termine, o quello a "part-time" o quello di lavoro a domicilio, non significa affatto introduzione di un divieto di normazione limitativa di quegli istituti, i quali, nell’intento dei promotori dovrebbero restare liberi da ogni vincolo, onde poter produrre effetti occupazionali favorevoli.

Per altro verso, anche il dichiarato intento di "liberalizzazione", che inevitabilmente attribuisce all’iniziativa referendaria un carattere propositivo (di introduzione di un divieto) risulta in contrasto con la riaffermazione del carattere propriamente abrogativo dei referendum, contenuta nella sentenza di Corte Cost. n.36/1993. In sintesi: se i quesiti referendari vanno interpretati come meramente ablativi di specifiche discipline non vi è univocità rispetto all’intento propugnato dai promotori che non debbano esistere normative vincolistiche per quei tipi di contratto di lavoro, ma per altro verso un intento volto ad introdurre un divieto, appare esso stesso in contrasto con la caratteristica "abrogativa" e non "propositiva" dei referendum.

Un ulteriore profilo di inammissibilità dei quesiti discende dalla circostanza che esistono obblighi internazionali assunti dall’Italia di dare a quei tipi contrattuali una disciplina speciale vincolistica, i cui capisaldi sono i medesimi di quelli che presiedono ai complessi normativi di cui si propone l’abrogazione.

In particolare, per quel che riguarda i contratti di lavoro a termine, la Direttiva Comunitaria 1999/70 del 28 giugno 1999 contiene il principio fondamentale della necessaria sussistenza di ragioni "obiettive" per la stipula ed il rinnovo dei contratti a termine, e demanda alle legislazioni nazionali di regolare la durata massima dei rapporti e il numero massimo dei rapporti. La "deregulation" proposta dai promotori si pone, quindi, in contrasto con l’obbligo assunto dall’Italia nel Trattato istitutivo della CEE di dare attuazione alle direttive comunitarie in forza dell’art. 10 che impone agli Stati membri un obbligo di collaborazione legislativa. Vi è, dunque, una ragione di inammissibilità ai sensi dello art. 75 comma 2° Costituzione, giacchè il nostro Paese è tenuto a rispettare in ogni momento il Trattato CEE e neanche in conseguenza di una iniziativa referendaria potrebbero darsi "vuoti" normativi tra l’abrogazione della vecchia disciplina vincolistica e la necessaria introduzione di quella nuova.

Si ricorda, per concludere su questo profilo, che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 63/90 ha interpretato per l’appunto il limite derivante dall’art. 75 comma 2° Cost. nel senso qui sostenuto chiarendo che la richiesta di referendum abrogativo deve essere considerata inammissibile qualora "essa si ponga in posizione di contrasto con uno specifico obbligo derivante dalle Convenzioni" con conseguente possibilità di insorgenza di una responsabilità dello Stato, quale appunto si ha - come è noto – anche in caso di mancata osservanza di una Direttiva C.E.

Per altro verso, la sussistenza di un obbligo internazionale a regolamentare la materia sulla base di principi vincolistici non diversi da quelli che ispirano la legislazione vigente, ridonda comunque in inammissibilità del quesito che proporrebbe agli elettori un principio abrogativo non realizzabile.

Considerazioni analoghe valgono per il contratto di lavoro a tempo parziale: l’Italia è obbligata a dare attuazione alla direttiva C.E. 1997/81 del 15 dicembre 1997, che contiene principi in ordine alla parità di trattamento tra lavoratori a tempo pieno e a tempo parziale e sulla tutela dell’interesse del lavoratore a transitare dall’una all’altra tipologia di contratto, che ispirano anche la vigente disciplina contenuta nello art. 5 legge 19 dicembre 1984 n. 863 di cui si chiede l’abrogazione.

Infine, per quel che attiene il contratto di lavoro a domicilio, l’obbligo internazionale di attuare o mantenere una disciplina speciale discende dalla sottoscrizione della Convenzione O.I.L. n. 177/1996, che, tra l’altro, all’art. 4 indica espressamente i profili del rapporto di lavoro a domicilio che devono essere regolati onde realizzare la parità di trattamento con gli altri lavoratori.

Va, poi, considerato che la specialità di tale rapporto (che non consente, ad esempio, di utilizzare l’ordinario criterio di retribuzione "a tempo") fa si che in carenza di apposita disciplina non possa in realtà realizzarsi una qualsiasi forma di autointegrazione normativa, con conseguente mancanza di univocità del quesito dal momento che si avrebbe non "liberalizzazione" ma "anomia" e conseguente impossibilità di dare esecuzione di rapporti di lavoro a domicilio.

Ulteriore e specifica ragione di inammissibilità del quesito relativo alla abrogazione della l. 230/62 è che esso prevede anche l’abrogazione dell’art. 9, che ha abrogato a sua volta la disciplina codicistica dell’art. 2097 c.c.: ciò rende non chiare e non immediatamente intellegibili le conseguenze del voto, in contrasto con quanto voluto come requisito di ammissibilità dalla Corte Cost. 27/82, potendosi ingenerare nell’elettore l’idea della riviviscenza dell’antica disciplina.

Si può indurre ancora in errore l’elettore che non voglia una completa liberalizzazione, ma una disciplina meno rigida dell’attuale e ritenga idonea quella che era contenuta nell’art. 2097 (che, come abbiamo già ricordato, disponeva, comunque, il principio che di regola il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato); questi, infatti, potrebbe essere indotto a ritenere che l’approvazione del quesito referendario ripristinerebbe la disciplina codicistica del contratto a termine.

L’idoneità del quesito referendario a trarre in errore l’elettore contrasta con i criteri elaborati dalla Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei referendum: la Corte, infatti, ha più volte affermato l’esigenza di "univocità, chiarezza e semplicità" del quesito (sentt. N. 27 e 29 del 1981 e n. 28 del 1987) e tale criterio evidentemente non viene soddisfatto sia quando il quesito contenga una pluralità di domande eterogenee, sia quando un’omogeneità ci sia, ma la formulazione del quesito sia tale da far fondatamente temere che possa trarre in inganno l’elettore.

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5. INAMMISSIBILITA’ DEL REFERENDUM ABROGATIVO DEL D.LGS. 23 DICEMBRE 1997 n.469 limitatamente all’art. 10 comma 3°; comma 10; comma 12 lett. B, limitatamente alle parole: "E 10".

Il quesito referendario mira a liberalizzare l’attività di collocamento privato e soprattutto ad eliminare, la norma che vieta alle agenzie private di collocamento di richiedere compensi ai lavoratori secondo un principio che ha profonde radici nella nostra legislazione nazionale ed è stata da ultimo consacrata dalla Convenzione O.I.L. n. 181/97, al quale è ispirato il Decreto Leg.vo 23.12.1997 n. 469. Valgono pertanto le considerazioni già sopra svolte circa l’inammissibilità di un referendum il cui principio abrogativo investa contenuti normativi e regole alla cui emanazione, e alla cui permanenza nell’ordinamento, lo Stato Italiano è obbligato per vincolo internazionale, secondo i concetti sviluppati nella già citata sentenza Corte Cost. 63/90.

Si aggiunga che questo quesito è stato formulato con una tecnica fortemente manipolativa che usa i testi legislativi come una sorta di "giacimento lessicale" dal quale estrarre frammenti con cui costruire una disciplina diversa. In proposito va rammentato che con la recente sentenza Corte Cost. 36/97 la Corte ha precisato che l’abrogazione referendaria non può riguardare mere locuzioni verbali inespressive di qualsiasi significato normativo, in modo da costruire poi attraverso la saldatura di superstiti frammenti lessicali eterogenei, una nuova disposizione.

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6. INAMMISSIBILITA’ DEL REFERENDUM ABROGATIVO DEL "SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE": L. 23.12.1978 n.833, limitatamente all’art. 63, comma 2, comma 3 limitatamente alle parole: "di cui al comma precedente", alle parole: "per l’assistenza di malattia" e alle parole: "valido anche per i familiari che si trovino nelle condizioni indicate nel precedente comma"; nonche’ d.l.vo 30.12.1992, n.502, art. 10 d.l.vo 7.12.1993, n.517, limitatamente a: art. 9, comma i, primo periodo, limitatamente alla parola: "integrativi"; comma 2, limitatamente alla parola: "integrativo"; comma 3, limitatamente alla parola: "integrativi"; comma 4, limitatamente alla parola: "integrativi".

L’articolo 63 della legge n. 833/1978, come risultante dall’eventuale abrogazione referendaria, continuerebbe a prevedere l’obbligatorietà dell’assicurazione contro le malattie per tutti i cittadini. Questi ultimi, in sede di dichiarazione dei redditi IRPEF, sarebbero in ogni caso chiamati a versare annualmente un contributo personale e non più finalizzato alla copertura sanitaria familiare del dichiarante. Non è però chiaro, a questo proposito, come verrebbe fissato il contributo: se cioè sarebbe uguale per il Servizio sanitario e le assicurazioni private, oppure variabile secondo le disposizioni di ogni ente assicurativo. Per quanto riguarda, invece, i fondi sanitari, l’art. 9 del decreto del 1992 risulterebbe manipolato nel senso di consentire l’istituzione di fondi sanitari privati non più "integrativi" rispetto al Servizio sanitario nazionale, bensì alternativi rispetto allo stesso.

Già in due altre occasioni, nel 1995 e nel 1997, la Corte costituzionale è stata chiamata a decidere sull’ammissibilità di richieste referendarie analoghe. Entrambi i quesiti sono stati dichiarati inammissibili.

Nel primo caso, con sentenza n. 2 del 1995, la Corte ha respinto la richiesta in quanto vertente su "leggi tributarie e di bilancio" le quali, come è noto, sono sottratte alla consultazione referendaria (art. 75, 2° comma, Cost.). Infatti l’oggetto principale dell’abrogazione consisteva nell’eliminazione del contributo per l’assistenza di malattia. Stesso esito ha avuto il quesito proposto due anni dopo, questa volta in relazione al solo secondo comma dell'art. 63 della l. 833/1978. In questo caso il risultato finale avrebbe sancito che "i cittadini non sono tenuti all'iscrizione presso il servizio sanitario nazionale", con possibilità di scegliere un'assicurazione privata in alternativa al S.s.n. (esattamente come l'odierna richiesta referendaria).

Con la sentenza n. 39 del 1997, la Corte costituzionale ha sottolineato che la richiesta referendaria avrebbe proposto una falsa alternativa agli elettori: da una parte il cittadino avrebbe potuto chiamarsi fuori dagli obblighi contributivi al Servizio sanitario nazionale; dall'altra, paradossalmente (considerato il permanente assetto universalistico del sistema), avrebbe avuto comunque diritto, come cittadino, alle prestazioni sanitarie offerte dal sistema pubblico. Dunque, il quesito referendario, proposto per la terza volta alla consultazione popolare, è inammissibile: l’obiettivo dell'abrogazione è infatti quasi del tutto assimilabile alla richiesta referendaria del 1997.

In conclusione: porre in discussione l'obbligatorietà dell'iscrizione al Servizio sanitario nazionale contrasta in radice, come già affermato la Corte costituzionale, con il sistema solidaristico e universalistico introdotto dalla legge del 1978. Non è, però, un contrasto che si risolve all'interno del sistema legislativo ordinario, coinvolgendo una precisa scelta della nostra Costituzione. La legge n. 833/1978 ha dato, infatti, piena attuazione a tre fondamentali principi costituzionali. In primo luogo quelli che si sostanziano nell'inderogabile dovere di solidarietà economica e sociale richiesto a tutti i cittadini (art. 2 Cost.) e nel raggiungimento di quella uguaglianza sostanziale quale compito della Repubblica (art. 3, secondo comma, Cost.). Infine, l'art. 32 della Costituzione che, oltre a tutelare la salute come fondamentale diritto, persegue tale tutela come "interesse della collettività".

La finalità referendaria si pone, dunque, come obiettivo l’inammissibile abrogazione di principi istituzionali. Se venisse data la possibilità di non contribuire al servizio sanitario pubblico, verrebbe soprattutto meno quella solidarietà tra cittadini che permette di assicurare, anzitutto, agli indigenti cure gratuite (come espressamente previsto dal secondo comma dell'art. 32 Cost.); in secondo luogo si favorirebbe una diversificazione della tutela sanitaria in base al reddito, ancora in aperto contrasto sia con il principio di uguaglianza che con il carattere "collettivo" dell'interesse alla tutela della salute.

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7. INAMMISSIBILITA’ DEL REFERENDUM POPOLARE ABROGATIVO DEL D.P.R. 30 giugno 1965, N. 1124, limitatamente a - articolo 10, comma 8 - articolo 11, comma 1, limitatamente alle parole: "calcolato in base alle tabelle di cui all'art. 39"; - articolo 16; - articolo 18; - articolo 28, comma 1, limitatamente alle parole: "con le modalità e nei termini di cui agli articoli 44 - così come modificato dal successivo punto 2) - e seguenti", e comma 5, limitatamente alle parole: "e versata con le modalità e nei termini di cui all'art. 44, così come modificato dal successivo punto 2)"; - articolo 34; - articolo 35; - articolo 36; - articolo 37; - articolo 38; - articolo 39; - articolo 40; - articolo 41; - articolo 42; - articolo 43; - articolo 44; - articolo 45; - articolo 46; - articolo 47; - articolo 48; - articolo 49; - articolo 126; - articolo 127; - articolo 128; - articolo 129; - articolo 148, comma 2, limitatamente alle parole: "da parte dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro"; - articolo 149; - articolo 152; - articolo 154; l'articolo 157, comma 7, limitatamente alle parole: "con il concorso dell'Istituto nazionale della previdenza sociale e dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro"; - articolo 177, lettera e), limitatamente alle parole: "all'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro";
NONCHE’ IL D.LGS 30 GIUGNO 1994, n. 479, LIMITATAMENTE A: - articolo 8, comma 3: "Al consiglio di amministrazione dell'INAIL, in aggiunta ai compiti di cui all'art. 3, è attribuita anche la competenza a decidere in via definitiva i ricorsi attribuiti alla commissione di cui all'art. 39, terzo comma, del testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, che è soppressa" .

Le disposizioni di cui si chiede l'abrogazione riguardano esclusivamente la gestione INAIL nell’industria, mantenendo invece il ruolo dell’ente pubblico in agricoltura.

La Corte costituzionale è al riguardo chiamata ad esaminare il quesito in relazione alle condizioni stabilite dalla nostra Costituzione in particolare del secondo comma dell’art. 75 che, come è noto, vieta i referendum con riguardo alle "leggi tributarie e di bilancio".

L’abrogazione del sistema di finanziamento ad un ente pubblico (come l’INAIL) viola certamente detto precetto costituzionale stante l’indiscutibile carattere pubblico dell’ente e, soprattutto, dalla utilizzazione in senso solidaristico delle risorse. Il sistema di finanziamento dell’INAIL, infatti, lungi dall’assumere caratteristiche prettamente assicurative, si fonda su un sistema quasi totalmente a ripartizione (80%).

La conferma dell'inammissibilità del referendum ci viene fornito dall’art. 38, secondo comma, della Costituzione che stabilisce come ai lavoratori colpiti da infortunio debbono essere "apprestati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita", mentre, al quarto comma, individua gli strumenti istituzionali attraverso i quali tale compito deve essere raggiunto. Inoltre, prosegue la disposizione, "ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato".

Non c’è alcun dubbio, in tal senso, che l’INAIL sia un ente "strumentale" alla realizzazione dei compiti costituzionalmente sanciti. Dunque, il giudizio di ammissibilità del referendum odierno può essere assimilato a quello che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 39 del 1997, ha svolto con riguardo alla richiesta di abolizione del Ministero della Sanità. In quella occasione la richiesta venne dichiarata inammissibile vertendo su una norma a carattere "costituzionalmente vincolato".

La proposta referendaria manca infine di chiarezza e coerenza esterna facendo leva su un equivoco di fondo: quello, cioè, di assimilare l’attività dell’INAIL ad una qualsiasi attività economica (se così fosse, le regole della concorrenza dovrebbero giustamente trovare applicazione anche in questo settore, aprendo le porte del mercato della tutela antinfortunistica alle assicurazioni private). Ma così –come si è detto –non è.

A questo proposito ricordiamo l’autorevole parere espresso nella relazione della Commissione bicamerale di controllo sull’attività degli enti previdenziali il 15 luglio scorso: "pur restando radicata alla logica assicurativa, la tutela previdenziale antinfortunistica (…) è volta a garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita".

Il monopolio pubblico trova inoltre la sua ragion d’essere, oltre che nel precetto costituzionale (art. 38, quarto comma), anche nella necessaria ripartizione dei rischi su una platea di soggetti il più ampia possibile (estremamente più vasta, ovviamente, di quella che risulterebbe da una liberalizzazione del settore).

Questo permette all’INAIL di praticare delle tariffe che, contrariamente a quanto sostenuto dai promotori, sono altamente competitive rispetto a quelle offerte dalle assicurazioni private (si pensi che i premi da corrispondere all’ INAIL sono inferiori mediamente da un terzo fino ad un decimo rispetto a quelli da versare alle assicurazioni private).

Qualora venisse abolito il monopolio dell’INAIL avremmo una situazione per cui, mentre le imprese assicurative del settore privato potrebbero scegliersi i clienti migliori (imprese a basso rischio e ad alta tecnologia) applicando premi concorrenziali, l’ente pubblico, non potendo rifiutare le domande di assicurazione, si troverebbe ad assicurare solo le imprese ad elevato tasso di rischiosità, trovandosi così costretto ad elevare i premi anche per le attività a basso rischio con un insopportabile ricaduta sul costo del lavoro e sull’occupazione.

Questo equivoco in cui la presentazione del quesito alla cittadinanza rischia di far cadere i votanti è invece ben chiaro ai promotori che infatti intendono mantenere il monopolio pubblico solo per il settore agricolo (che, come è noto, porta delle perdite consistenti appianate con la gestione del solo settore industriale).

Va da ultimo rilevato come l’INAIL, attualmente, in ottemperanza all’intero precetto costituzionale, oltre alle prestazioni in denaro (che, si badi, vengono erogate anche se il datore di lavoro non paga i premi assicurativi), garantisce ai lavoratori un’attività di prevenzione, di cura, di riabilitazione e reinserimento lavorativo che sarebbe veramente problematico ottenere da un gestore assicurativo privato che - del tutto legittimamente - deve privatizzare gli utili e socializzare le perdite a tutto danno dei lavoratori.

8. INAMMISSIBILITA’ DEL REFERENDUM POPOLARE ABROGATIVO DEL D.LGS. C.P.S. 29 LUGLIO 1947, N. 804, recante "Riconoscimento giuridico degli istituti di patronato e di assistenza sociale", e successive modificazioni".

L’obiettivo, e comunque l’effetto dell’eventuale affermazione del quesito referendario, consiste nella integrale abolizione dei patronati e non già come dichiarato dai promotori l’eliminazione del finanziamento pubblico di tali istituti. Se così fosse stato, infatti, la richiesta abrogativa avrebbe riguardato esclusivamente gli articoli 4 e 5 del decreto n. 804 del 1947 e l'art. 3 della legge n. 112 del 1980 (i quali, appunto, prevedono il finanziamento pubblico e le sue modalità) e non tutta la legge con le successive modificazioni.

L’effetto dell’abrogazione sarebbe, quindi, la cancellazione degli istituti di patronato e di assistenza sociale con tutto ciò che ne consegue: la tutela dei lavoratori potrà essere svolta anche da agenzie private aventi scopo di lucro oppure da faccendieri o intermediari. Ed è appena il caso di sottolineare che proprio queste ipotesi sono penalmente sanzionate dall’articolo 1 del decreto n. 804/1947 di cui si chiede l’abrogazione.

In ogni caso, anche limitando il vaglio di ammissibilità alla sola abolizione del finanziamento pubblico va rilevato come ai sensi del secondo comma dell’articolo 75 della Costituzione vi è il divieto di consultare direttamente il popolo su leggi "tributarie e di bilancio", ivi comprese le contribuzioni previdenziali, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 2 del 1995). Il finanziamento pubblico ai patronati avviene attraverso un prelievo percentuale (attualmente è lo 0,226%) sull’intero ammontare dei contributi dovuti agli enti pubblici di previdenza (Inps, Inail, Inpdap…). Le risorse finanziarie ottenute vengono poi suddivise tra i diversi istituti in proporzione all’attività svolta (con verifiche assai severe da parte dello Stato). Questo significa che tutti i lavoratori, per i quali esiste una posizione assicurativa pubblica, contribuiscono al finanziamento degli istituti di patronato. A ben vedere tale forma di contribuzione assume caratteristiche fortemente solidaristiche: così come accade nel nostro sistema previdenziale, in cui le prestazioni degli attuali pensionati vengono pagate con le risorse apportate dai lavoratori attivi (il cosiddetto "sistema a ripartizione"), le funzioni di tutela affidate ai patronati vengono finanziate da tutti i lavoratori con le modalità che abbiamo accennato. In conclusione, il carattere pubblico e solidaristico del finanziamento contributivo, unitamente alla natura di "servizio di pubblica utilità" dell’attività svolta dai patronati conduce all’inammissibilità del referendum.

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9. INAMMISSIBILITA’ DEL REFENDUM ABROGATIVO DELLA LEGGE 4 GIUGNO 1973, n. 311, "Estensione del servizio di riscossione dei contributi associativi tramite gli enti previdenziali" e successive modificazioni ".

L’obiettivo di tale quesito dichiarato ai cittadini dai promotori è l’intento di far cessare l’automatica trattenuta delle quote associative sindacali sui trattamenti pensionistici erogati dall'Inps e Inail ai rispettivi pensionati iscritti alle organizzazioni sindacali.

Nella loro scheda osservano polemicamente, infatti, che non è un caso che "già oggi, i pensionati rappresentino quasi la metà del totale degli iscritti al sindacato".

Bisogna però immediatamente smascherare il voluto equivoco perché la legge n. 311 del 1973, di cui si chiede in concreto l'abrogazione referendaria, non riguarda affatto le trattenute sindacali per lavoratori pensionati, bensì le trattenute sindacali per i lavoratori attivi. Dunque, contrariamente all'intento proclamato, il sistema di riscossione dei contributi sindacali per i pensionati iscritti non corre alcun pericolo, essendo previsto e disciplinato da una legge diversa e precisamente dalla legge n. 485 del 1972.

Ma ciò che pare quasi sorprendente è che, in caso di successo referendario del quesito, nono si avrebbe neppure l'abrogazione di una modalità di esazione dei contributi sindacali per i lavoratori attivi (anche per i quali in base alla legge 311/1973 potevano intervenire gli enti previdenziali, seppure come esattori di quanto dovuto dai datori di lavoro, per effetto delle deleghe sindacali rilasciate dai lavoratori).

Ed infatti anche questo è un evidente falso obiettivo in quanto la legge del 1973 riguardante i lavoratori attivi costituisce un falso bersaglio, per essere ormai inattiva e non utilizzata dopo i mutamenti avvenuti nella materia della contribuzione sindacale a seguito dell'esito dell'altro referendum del 1995 relativo all’art. 26 l.300/70.

Va ricordato, in proposito, che prima del referendum del 1995, l'art. 26 dello Statuto consentiva al lavoratore di delegare il proprio datore di lavoro a corrispondere al sindacato l'importo del contributo sindacale. Questa facoltà assicurata al lavoratore, costituiva una sorta di eccezione al codice civile, perché normalmente chi è creditore di un soggetto non può obbligarlo a pagare altro soggetto al quale chi deve pagare non debba nulla, salvo che lo stesso delegato pagatore accetti. Questa facoltà, appunto, l'art. 26 legge 300/1970 assicurava eccezionalmente al lavoratore, creditore delle retribuzioni nei confronti del datore di lavoro, che egli poteva delegare anche senza il suo consenso a pagare il contributo al sindacato, di cui il lavoratore, e non certo il datore di lavoro, era debitore del contributo associativo.

Venuto meno lo speciale obbligo di legge imposto al datore di lavoro, il sistema è profondamente mutato, perché oggi lo schema non è più quello della delega di pagamento di diritto speciale, ma quello della "delega di diritto comune", ovvero della "cessione di credito". Con la delega di diritto comune, il datore di lavoro potrebbe in teoria rifiutarsi di effettuare il pagamento, ma i contratti collettivi hanno reintrodotto, per via di accordo sindacale, quello che una volta era un obbligo speciale di legge. La cessione di credito è l'altra strada con la quale si ha, innanzitutto, una cessione del lavoratore al sindacato di una quota della sua retribuzione pari al contributo associativo dovuto, e poiché da quel momento il sindacato diviene esso stesso (diversamente dall'ipotesi della delega) creditore diretto del datore di lavoro, questi non può comunque rifiutarsi di pagare.

Una volta ricondotto tutto il meccanismo a livello delle libertà civili (che pure dovrebbero stare a cuore ai promotori), nel concreto non si è neanche più usata la possibilità di far operare come esattori gli istituti previdenziali. Oggi i datori di lavoro inviano direttamente alle oo.ss. i contributi prelevati sulle retribuzioni degli iscritti o a seguito di cessione di credito o di delega di pagamento previsto dal contratto collettivo.

E' allora agevole osservare ancora una volta come a stregua dei consolidati orientamenti della Corte Costituzionale in tema di requisiti di ammissibilità dei referendum, il quesito deve essere valutato come non ammissibile, per evidenti irrazionalità ed incongruenza della formula petitoria rispetto ai fini perseguiti dai promotori, in questo caso inesistenti.

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P.Q.M.

Si chiede che l’Ecc.ma Corte Costituzionale voglia dichiarare inammissibili le richieste di referendum innanzi indicate.

Roma, 10.1.2000

Avv.ti prof. Piergiovanni Alleva Amos Andreoni Vittorio Angiolini Pier Luigi Panici