Questi appunti sono indirizzati in particolare a tutti coloro che si interrogano sui motivi di fondo della
crisi del movimento dei lavoratori, per cercare di avviare una discussione teorica fra
persone senza interessi accademici, ma impegnate in attivita' sociali o politiche.
I punti di riflessione sono presentati come tesi molto schematiche,
pur sapendo in questo modo di saltare a pie' pari lunghi dibattiti:
ma cio' e' fatto solo per l'urgenza di andare oltre, di cercare di smuovere un blocco culturale e
politico che sta paralizzando da decenni migliaia di militanti della "sinistra", in Italia e non solo.
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La spiegazione piu' diffusa della crisi del movimento dei lavoratori e' la seguente: "L'organizzazione fordista
della fabbrica riuniva un gran numero di lavoratori, li assoggettava a una stessa direzione,
li rendeva simili nel profilo professionale. Al tempo stesso, per mantenere grandi volumi di produzione
doveva/poteva concedere salari piu' elevati sia per mantenere la pace sociale e la continuita' produttiva
all'interno delle fabbriche, sia per espandere il mercato dei consumatori.
Tutto cio' creava condizioni oggettivamente favorevoli per grandi organizzazioni sindacali e politiche
dei lavoratori, che appoggiavano o gestivano politiche economiche generali di tipo keynesiano.
Quando queste condizioni economiche, tecnologiche e organizzative sono cambiate, con la fine del fordismo,
e' finito il potere di partiti e sindacati basato sul compromesso fordista".
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Questa spiegazione e' vera, ma parziale; non spiega ne' la nascita di grandi organizzazioni di ispirazione socialista
prima dell'esistenza o al di fuori delle fabbriche di tipo fordista,
ne' il successo della proposta leninista in Russia prima e in tanti Paesi del Terzo Mondo in seguito.
In realta' la "scommessa socialista" era basata su di un insieme di visioni del mondo che trovarono un
baricentro teorico nell'opera di Kal Marx, e specificamente nella teoria del valore-lavoro.
In altri termini, la concreta sensazione di sfinimento fisico nel lavoro, percepita da milioni di esseri umani,
la percezione della perdita delle relazioni sociali della comunita' di villaggio
(che, per quanto povera economicamente, garantiva un minimo di solidarieta' e di riconoscimento sociale)
e alcune tradizionali concezioni religiose e culturali di tipo millenaristico e salvifico
(a incominciare da quelle giudaiche e cristiane), poterono saldarsi e, grazie all'opera di Marx,
irrompere all'interno della scienza positivista dell'Ottocento. (E comunque, quando si esamina la letteratura di
orientamento sociale della seconda meta' del secolo XIX, si rimane colpiti dalla quantita' di concetti
e di punti di vista, che oggi attribuiremmo alla tradizione marxista, condivisi e propugnati da scrittori
e attivisti apparentemente lontanissimi dalle correnti politiche influenzate dal pensatore di Treviri.)
L'idea di una grande ingiustizia sociale, scientificamente spiegabile e politicamente redimibile
fu culturalmente egemonica negli ultimi decenni dell'Ottocento e nei primi del secolo scorso.
- In questo scritto voglio sostenere una tesi, che puo' essere suddivisa nelle seguenti affermazioni:
- Il grande successo del movimento socialista alla fine del XIX secolo, e - seppure fra grandi contrasti fra il ramo
socialdemocratico e quello comunista - nella prima parte del XX secolo non si puo' spiegare con le sole condizioni
sociologiche "oggettive" del tempo - lo sviluppo della grande industria - ma ad esse bisogna aggiungere il ruolo
delle grandi visioni del mondo allora prevalenti fra i lavoratori.
- La crisi del movimento socialista e' accompagnato anch'essa da una grande caduta di credibilita' di queste
visioni del mondo, che addirittura precede in molti casi l'effettiva trasformazione dell'organizzazione
produttiva.
- E' oggi possibile e necessario, a fronte del conflitto attuale fra rapporti di produzione e possibilita' di ulteriore
sviluppo delle forze produttive - conflitto che al momento sta condannando centinaia di milioni di esseri umani
all'indigenza e che sta mettendo in pericolo gli equilibri fondamentali su cui si basa la vita sul nostro pianeta -
lavorare a nuove sintesi che ridiano prospettive di solidarieta', coerenza, sinergia, alle lotte che gia'
avvengono nelle circostanze piu' disparate in ogni punto del globo.
- Cio' significa rifiutare il movimentismo ingenuo - e quindi, inefficace e dispersivo - di tanta parte del cosidetto
movimento NO GLOBAL; senza dimenticare pero' la tremenda lezione del totalitarismo stalinista del XX secolo.
Bisogna quindi pensare a una o piu' organizzazioni che abbiano la capacita' di lavorare in modo libero e democratico
a sintesi successive via via piu' comprensive e profonde, chiedendo il massimo della creativita' a ciascuno
e senza distruggere critiche e proposte alternative (quest'ultimo punto esula pero' dagli scopi di questo breve
scritto).
- Torniamo quindi a dare un rapido sguardo alla crisi della grande teoria del XIX secolo.
Secondo la teoria del valore-lavoro, il tempo di lavoro socialmente necessario per produrre una merce,
in un orizzonte tecnologico e organizzativo storicamente dato, e' il valore di tale merce.
Tutti i sistemi basati sullo sfruttamento (cioe' non solo il capitalismo, ma anche lo schiavismo, il feudalesimo ecc.)
ottengono un plusvalore prolungando l'orario di lavoro al di la' del necessario
per il sostentamento dei lavoratori stessi, e impadronendosi del valore cosi' prodotto.
Il rapporto fra valore prodotto e valore pagato ai lavoratori e' il tasso di sfruttamento.
A differenza degli altri sistemi, in cui le classi dominanti consumavano per se' interamente il plusavalore estorto,
il capitalismo reinveste buona parte di tale plusvalore al fine di aumentare il piu' possibile
il valore della produzione, avendo come unico fine il continuo incremento del capitale.
La teoria del valore-lavoro si propone quindi come punto di vista esterno,
come meta-teoria (come uno dei risultati della critica dell'economia politica,
per parafrasare Marx) rispetto all'economia borghese; come qualcosa che aiuta il movimento
dei lavoratori ad andare oltre la societa' capitalistica e le sue autorappresentazioni.
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L'avvento del fordismo ebbe un impatto contraddittorio con questa visione del mondo.
Da una parte l'organizzazione scientifica del lavoro sembro' essere una piena conferma dell'approccio
e delle concezioni marxiste (pensiamo al concetto di tempo di lavoro socialmente necessario,
ormai misurato con rigore dai seguaci di Taylor, o all'idea che la rivoluzione comunista avesse bisogno
di un grande sviluppo della produttivita' del lavoro). Dall'altra la possibilita' di erogare paghe ben al di
sopra del salario di sussistenza e riproduzione permise di spostare politicamente grandi masse di lavoratori
verso proposte riformiste (come avvenne nei Paesi anglosassoni e dell'Europa settentrionale) o populiste
(l'Argentina di Peron) o decisamente reazionarie (come avvenne in Germania col nazismo, in parte in Italia col fascismo,
e negli anni Sessanta negli USA con l'appoggio dei sindacati alla guerra nel Viet Nam).
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La teoria del valore-lavoro non solo diede fondamento rigoroso alla lotta sindacale e politica per una maggiore
eguaglianza sociale, ma parve anche porre le basi per un calcolo economico razionale e giusto
di una futura societa' socialista, che evitasse cosi' le crisi, gli sperperi e gli squilibri tipici dell'economia
capitalistica. In qualche modo, il sindacalista che in una fabbrica dell'Occidente conduceva una trattativa legando
le buste paga alle necessita' economiche dei lavoratori e alla politica economica generale, poteva sentirsi parte di
un'interpretazione della realta' al tempo stesso scientifica e militante che pareva trovare un'ulteriore conferma
nel successo dei piani quinquennali dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
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Dopo la Seconda Guerra Mondiale, ancora in pieno fordismo, questa concezione unitaria e trionfalistica
si dissolse rapidamente. I tassi di sviluppo economico dell'URSS incominciarono a declinare,
mentre il totalitarismo politico, lungi dal giustificarsi come terribile necessita' temporanea - sciaguratamente
prolungata dall'attacco nazista -, apparve come puro strumento di autodifesa di una classe burocratica corrotta e
irriformabile. La teoria economica marxiana non trasse giovamento dalla circostanza che non fu mai applicata
nella pianificazione sovietica (lo stesso Stalin, nel 1951, ne rimandava l'utilizzo a un indefinito futuro),
ne' dalle critiche basate su strumenti analitici sempre piu' raffinati. Un punto di svolta di questo lungo e
complicato dibattito - purtroppo confinato a ristretti gruppi di specialisti di formazione accademica -
puo' essere considerato la pubblicazione nel 1960 di Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa.
L'economista italo-britannico amico di Gramsci e Keynes dimostro' la possibilita' di calcolare,
in una qualsiasi configurazione economica, un sistema di prezzi coerente ma irriducibile ai contenuti di lavoro
delle varie merci.
Cadeva cosi' un pilastro fondamentale della teoria marxiano (e di quasi tutto il marxismo), e la stessa idea di
sfruttamento perdeva il suo status di concetto scientifico per divenire un puro slogan propagandistico.
Anche se da un punto di vista teorico questo modello non e' stato esente da critiche, possiamo assumerlo
convenzionalmente come un momento in cui nel movimento dei lavoratori si e' rafforzata la pratica della
doppia verita': l'idelogia per far militare i militanti e la crisi pradigmatica conosciuta solo dai dirigenti.
(naturalmente anche prima di allora i dirigenti avevano accesso a informazioni privilegiate: ma i partiti comunisti
della clandestinita' antifascista e antinazista erano caratterizzati - anzi, traevano proprio molta della loro forza
organizzativa - proprio dalla grande omogeneita' di lessico e di riferimenti teorici fra tutti i livelli delle
organizzazioni, risultato perseguito dando una grande enfasi alle scuole di partito, alla lettura e alla discussione
comune dei testi di riferimento, dall'impostazione pedagogica della stampa e propaganda ecc.)
L'accettazione della "doppia verita' teorica" da parte dei dirigenti, significo' che,
pur senza esserne consapevole, il movimento dei lavoratori non aveva piu'
una propria teoria economica, basata su una concezione del mondo forte e difendibile; poteva ancora condurre
lotte vittoriose (come l'autunno caldo italiano) ma era ormai diventato una parte
della societa' che parlava solo per se', non piu' a nome della grande maggioranza degli esseri umani
e nella prospettiva di una grande rivoluzione sociale.
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Le organizzazioni dei lavoratori "di classe", i partiti comunisti occidentali in primo luogo,
si assunsero la gravissima responsabilita' di negare, o minimizzare, o passare sotto un imbarazzato silenzio
la portata politica di una tale crisi teorica, cosi' come dello stallo economico, sociale,
politico, culturale dei Paesi dell'Europa Orientale. Le cortine fumogene vennero dissolte solo per far apparire
come lineare e ovvia la scelta di accettare acriticamente il liberismo in tutti i suoi aspetti essenziali:
la stragrande maggioranza dei militanti avrebbe vissuto la discontinuita' con le idee e i propositi del passato
come una strano sogno da cui risvegliarsi, non come una scelta politica da discutere in tutti i suoi aspetti.
(In Italia, questa discussione non e' stata seriamente affrontata neppure dal Partito
della Rifondazione Comunista, ad onta del suo stesso bel nome; questa rimozione,
questa fuga dalla realta' ha contribuito a renderlo un partito prima nostalgico e poi autoreferenziale e
sterilmente agitatorio, gettando cosi' al vento l'impegno generoso di tanti suoi militanti).
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Eppure la stessa esperienza storica del movimento dei lavoratori ha generato o incontrato idee e culture del
piu' grande interesse, che se pure attendono una sintesi unitaria, sono gia' in grado di delineare nuovi
approcci critici alla cultura dominante e nuove forme di lotta. I prossimi punti sono un breve elenco di nodi teorici
e politici ormai all'ordine del giorno.
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I marxisti della II e della III internazionale si immaginavano la societa' socialista come una grande
macchina produttiva razionale e giusta, che, senza bisogno di partiti, parlamenti e trattative commerciali,
avrebbe fornito a tutti quanto necessario per la vita e il libero sviluppo della personalita' di ciascuno.
Questa era un'utopia negativa per almeno tre forti ragioni.
Primo, implicava una riduzione della
complessita' delle scelte economiche, mentre invece ogni sviluppo scientifico, tecnico e organizzativo porta
normalmente in direzione opposta (i marxisti lessero erroneamente l'espansione del macchinismo industriale e poi
del taylorismo e del fordismo come una conferma della tendenza alla
riduzione della complessita' sociale, mentre si trattava - e Taylor lo capi' assai bene e lo disse chiaramente - di un
gigantesco trasferimento di controllo della complessita' del lavoro dalla mente del lavoratore a quella del dirigente).
Secondo, supponeva il raggiungimento di una condizione economica fiorente ma
stazionaria, o comunque l'inesistenza di effettive alternative di sviluppo in grado di ripoliticizzare la societa'.
Ciascuno puo' vedere come una simile possibilita' fosse lontanissima da ogni valutazione storica realistica.
Terzo, assumeva che in questa novella eta' dell'oro, o Gerusalemme terrestre, le differenze fra gusti
e valori personali si sarebbero o attenuati o manifestati come stili di
vita individuali, senza coinvolgere l'organizzazione generale della societa'.
Nessuna di queste previsioni, o speranze, si e' realizzata, se non nella forma tragicamente caricaturale di
stagnazione economica accompagnata da totalitarismo politico.
Avrebbero avuto buon gioco i seguaci del liberalismo hegeliano nell'affermare che
solo la democrazia liberale e' in grado di creare una dialettica positiva fra il diritto di ciascuno ad essere
riconosciuto nella propria dignita' di persona e quindi
di esprimere e soddisfare liberamente preferenze e esigenze timotiche individuali, e la
necessita' di disporre di una classe di decisori (gli imprenditori borghesi) che sfidano quotidianamente
lo status quo e la tendenza alla stagnazione economica, introducendo innovazioni di prodotto, di processo,
di preferenze di consumo, al fine di conseguire maggiori guadagno e potere e prestigio personali.
Pur obiettando che il liberismo realmente esistente e' descrivibile con questo modello
solo in aree abbastanza ristrette del Nord del mondo, e con molte sgradevoli eccezioni,
si deve riconoscere la questione ha una sua
validita' intrinseca: come potrebbe una societa' socialista, non supponendola piu' stazionaria e stabilmente appagata,
trovare un altro meccanismo sociale in grado di far emergere proposte creative,
soluzioni di continuita' e iniziative innovatrici?
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Dal marxismo della II e della III internazionale il movimento dei lavoratori eredita quindi un altro grande punto cieco,
riguardante i concetti di impresa e di imprenditorialita'.
Se non si riesce piu' a credere nella possibilita' e/o nella desiderabilita' di organizzare l'economia come una
grande macchina, e' necessario ripensare
il concetto di soggetto economico.
Nella societa' capitalistica esso e' costituito da tutti i cittadini ma in particolare dall'imprenditore,
sia egli stesso capitalista o delegato dai finanziatori (azionisti) dell'impresa che dirige.
(Anche i privati cittadini vengono invitati a essere imprenditori di se stessi ...).
Le imprese si scambiano risorse tramite i mercati.
Ma, cosa che i liberisti dimenticano volentieri,
i mercati non sono neutrali verso tutte le forme di ricchezza umana, e verso tutti gli aspetti di questa
ricchezza: privilegiano sistematicamente i beni realizzabili a breve termine rispetto a quelli rivolti a soddisfare
esigenze generali e a lunga scadenza, e i detentori di conoscenze merceologiche e di processo (cioe'
i produttori stessi) verso chi ne e' carente (la massa dei consumatori individuali). In questo modo, i mercati spingono
sistematicamente a soddisfare i capricci momentanei al posto delle necessita' strutturali della societa' (il colore e il
trillo dei telefoni cellulari invece del riciclo integrale dei rifiuti, tanto per prendere un esempio a caso), e comunque
con ben scarso controllo dei contenuti effettivi dei prodotti che si acquistano e dei processi produttivi che li hanno
generati (il caso della "mucca pazza" non e' che l'esempio piu' clamoroso degli ultimi anni). Bisogna incominciare ad
immaginare attivita' economiche dirette da un nuovo tipo di imprenditore - nominato e controllato socialmente -
e finanziate da iniziative come la banca etica e simili, i cui processi siano completamente noti e controllabili
(per esempio via Internet ...), tentanto anche un uso alternativo di tutte le forme di certificazione della qualita'
(come per esempio l'ISO 9000 e successivi). E' interessante notare che un simile approccio potrebbe trovare momenti
di somiglianza e di convergenza fra iniziative apparentemente diversissime come il commercio equo e solidale,
le associazioni dei consumatori e degli utenti, i produttori di alimenti "biologici", le comunita' di auto-aiuto,
le "banca del tempo", la finanza etica e il microcredito, la realizzazione di software open source (cioe'
completamente leggibile da tutti) e con copyright gratuito (cioe' copiabile gratuitamente ma non "rubabile",
come il sistema operativo Linux), e molti altri ancora. Beninteso, purche' questi soggetti siano disposti a una
completa trasparenza dei propri processi e della propria organizzazione, rifiutino compromessi
di basso profilo col sistema delle merci e siano disponibili ad accettare forme sempre
piu' incisive e formalmente stabilite di controllo sociale democratico sulle proprie scelte.
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Lo stesso conflitto fra interesse privato di breve periodo e necessita' di azioni responsabili di tipo strategico lo
troviamo anche all'interno delle aziende capitalistiche, specie le piu' grandi: da una parte la gestione delle
risorse umane punta a una misurazione e a una premiazione della prestazione sempre piu' immediata e
individualistica; dall'altra sempre meno persone con responsabilita' decisionali si impegnano in strategie di
lungo periodo. Cio' e' particolarmente visibile in un Paese come l'Italia, in cui la borghesia non e' mai uscita
dall'egoismo familistico, e persino lo Stato e' sempre stato visto piu' come rendita economica e politica da saccheggiare
che come formulatore e attuatore di strategie efficaci. Delle aziende italiane si vedano, per tutti, la (in)capacita'
di registrare brevetti internazionali di successo e di promuovere investimenti in formazione e
ricerca scientifica. Di fronte a dirigenti sempre piu' occasionali e pronti a far le valige per lidi
migliori, per non parlare degli azionisti interessati solo ai risultati del trimestre venturo, sono ormai i lavoratori
(insieme con i consumatori e gli utenti) a rappresentare (almeno potenzialmente)
la piu' forte motivazione a un solido sviluppo delle imprese e alla loro capacita' di rispondere efficacemente a bisogni
reali. Anche per questa strada ritroviamo dunque la necessita' di attrezzarci per esercitare momenti di controllo
sempre piu' forti sulle stesse strategie aziendali e a ripensare profondamente il ruolo delle organizzazioni
sindacali e delle RSU.
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Per il movimento dei lavoratori, infatti, queste nuove possibilita' rappresentano delle
importanti opportunita' ma implicano anche
la necessita' di una vera e propria rivoluzione culturale. Troppo spesso la tesi della "sinistra" e' stata:
i dirigenti facciano il loro mestiere, noi pensiamo a difendere gli interessi dei lavoratori.
Questa barriera traduceva la paura di farsi trascinare in una logica avversa ai propri interessi, ma fino ad oggi
a portato ad occuparsi di scelte produttive e organizzative solo a fronte di gravi crisi industriali (e dimenticando
tutto a crisi finita).
Oggi, nonostante l'ideologia dominante e le grancasse di regime, la credibilita' della razionalita' del liberismo e'
ogni giorno piu' erosa: ormai e' possibile e necessario, proprio per difendere al meglio le esigenze dei lavoratori
e dei cittadini, mettere le mani nel "mestiere dei dirigenti". Collegamenti fra rappresenze sindacali dei lavoratori,
associazioni dei consumatori, nuovi tipi di iniziative economiche socialmente e ambientalmente responsabili sono state
finora episodiche e limitate a "casi esemplari" non molto conosciuti. E' necessario ragionare su come sviluppare queste
dimensioni nuove, elaborando anche teoria e strumenti di critica e di verifica di queste possibilita' inedite.
- Vi e' pero' una scelta fondamentale da compiere: o si continua ad approfondire la classica ricerca del valore-lavoro,
che possa razionalmente fondare un punto di vista forte e centrale di critica e lotta al capitalismo, o si pensa che
questa strada sia senza sbocchi, e si passa ad analizzare criticamente le strutture del potere e i processi
decisionali dei soggetti economici, e
il carattere delle transazioni fra soggetti
economici diversi, non solo nella societa' attuale, ma anche in un eventuale
processo di transizione ad un altro modo di produzione .
Nel primo caso, si e' indubbiamente prosecutori delle classiche tesi marxiane; ma si rimane soggetti alle forti
obiezioni di essere alla ricerca di una verita' sociale ultima, che, posto che si trovasse, potrebbe accampare
pretese totalitarie, e di trascurare la considerazione per la quale
qualsiasi regolarita' strutturale del capitalismo sarebbe dovuta gia' emergere
dalle migliaia di studi compiuti per le piu' svariate ragioni.
Nel secondo caso, ci si deve necessariamente associare al campo dei revisionisti; ma con i vantaggi di
poter puntare all'integrazione sia teorica sia politiche fra tutte le innumerevoli forme di lotta che gia' ora
contestano la falsa neutralita' dei comportamenti economici, e di poter prospettare
la nascita di una societa' civile socialista, come base effettiva di liberta' personale e politica e di
democrazia pluralistica, vera innovazione rispetto al modello politico scaturito dall'Ottobre sovietico. Le
note seguenti cercano di mostrare in quali direzioni potrebbe portare questa seconda possibilita'.
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Mercato e direzione sociale. Mentre il liberismo considera aprioristicamente (cioe' ideologicamente) l'economia
di mercato come il paradigma fondamentale dell'attivita' economica, e' necessario verificare quando esso si dimostra
efficace e quando invece crea piu' problemi di quanti ne risolva. Un possibile approccio potrebbe essere quello di
considerare il libero mercato un
sottosistema dedicato a quegli aspetti delle merci e dei servizi merceologicamente evidenti e senza impatti a
lungo termine (per esempio la scelta fra la bravura di due ristoratori che utilizzino entrambi materie prime e processi
culinari di buona qualita'); un secondo livello, sovraordinato al primo, potrebbe essere quello delle grandi aziende
controllate da comunita' focalizzate (per esempio i fornitori di acqua potabile, di alimenti base, di mezzi di
trasporto, di comunicazioni, di educazione e formazione, di servizi sanitari ..., anche in concorrenza fra di loro) che
agirebbero sulla base di contratti stipulati reciprocamente e pubblicamente conosciuti e discussi; l'ultimo livello
sarebbe quello dello stato democratico, che non gestirebbe direttamente alcuna attivita' produttiva
(evitando cosi' il sovraccarico di competenze) ma che pianificherebbe in modo coattivo l'utilizzo delle risorse scarse
e dirimerebbe i contrasti fra unita' produttive. Uno dei punti di forza di una simile organizzazione sociale sarebbe la
responsabilizzazione della maggioranza dei cittadini nel controllo delle imprese sociali,
che si risolverebbe sia in una maggiore e piu' diffusa consapevolezza dei problemi effettivi delle organizzazioni
(evitando in questo modo tanto l'adesione acritica quanto la protesta per partito preso) sia in una maggiore capacita'
di controllare la stessa democrazia parlamentare.
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Pianificazione.
Se l'ideologia della pianificazione come strumento per eccellenza per dirigere la societa' con giustizia e razionalita'
e' tramontata, vi sono almeno tre considerazioni che potrebbero spingere verso una sua rivalutazione pragmatica:
la necessita' di dare una speranza di vita e di lavoro dignitosi ai miliardi di esseri umani che abitano il Sud del mondo;
l'esigenza di gestire le risorse naturali non rinnovabili (pianificando appunto l'adozione di soluzioni alternative
rinnovabili ed ecocompatibili) e le risorse comunque scarse (acqua, terra, alimenti ...);
la possibilita' di utilizzare a fini pianificatori la grande potenza a basso costo dei moderni elaboratori elettronici,
che permettono di eseguire calcoli in tempi brevissimi fino a pochi anni fa impensabili,
raccogliendo e diffondendo dati e informazioni via rete.
La pianificazione sarebbe quindi utilizzata per gestire quelle risorse fortemente vincolate alla realta' materiale
del pianeta su cui viviamo, per le quali il mercato o anche la dialettica fra soggetti economici socializzati
rischierebbe di scambiare fra di loro valori incommensurabili, tipicamente un vantaggio immediato rispetto alla
sopravvivenza nel lungo periodo.
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Si parla di crisi delle istituzioni democratiche. La verita' e' che ad esse sono stati affidati due compiti
ormai impossibili. Il primo e' quello di condurre politiche economiche e sociali nella finzione del mantenimento
della sovranita' nazionale, quando ormai questa se ne e' volata via,
in parte per la dimensione continentale o planetaria
delle maggiori reti produttive, in parte per l'egemonia statunitense su tutte le principali istituzioni di rilevanza
mondiale, nel controllo delle fonti di energia, delle materia prime, della produzione alimentare,
della scienza e tecnologia, delle comunicazioni, della forza militare. A fronte di questo quadro,
e' inevitabile che l'unica proposta praticabile appaia essere quella dello stato minimo di stampo liberista.
Per noi abitanti del Vecchio Continente,
esiste pero' l'alternativa
della costituzione della Federazione Europea - non a caso duramente avversata da tutti i fautori di un capitalismo
senza regole dominato dagli USA. L'Europa Unita nascerebbe inevitabilmente interna al sistema economico dominante
nel Nord del
mondo, ma almeno avrebbe abbastanza potere contrattuale da essere potenzialmente
in grado di optare per un modello alternativo, senza
necessariamente soccombere ai ricatti degli USA.
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Il secondo compito impossibile e' quello di scegliere con un suffragio democratico un insieme di persone,
raggruppate in uno o piu' partiti, a cui affidare una quantita' di compiti, almeno in linea di principio,
sempre piu' vasti e complessi. Insomma, con un unico voto noi dovremmo poter scegliere le persone e i partiti
migliori a tracciare le linee guida sulla manipolazione genetica, le normative antisismiche,
le assegnazioni delle radiofrequenze, l'assistenza sanitaria ... persino in condizioni ideali tutto cio' non e' piu'
possibile. Bisogna ripensare alla radice il funzionamento delle istituzioni democratiche,
a incominciare dalla loro controllabilita' e dalle loro efficacia.
Un possibile punto di partenza potrebbe essere il principio di sussidiarieta',
gia' ufficialmente adottato dalla Comunita' Europea. Finora e' stato utilizzato in chiave prevalentemente
liberistica e "devolutiva" (in italiano: involutiva), per giustificare estese privatizzazioni di enti e
aziende pubbliche e per togliere la "palla al piede" delle regioni povere alle regioni ricche d'Europa.
Ma potrebbe essere applicato in ben altro modo, affidando a comunita' focalizzate,
non necessariamente di tipo territoriale, la gestione e il controllo democratici di istituzioni pubbliche.
Per esempio, ogni cittadino europeo potrebbe avere il diritto di iscriversi, se lo desidera, a un "elettorato"
di un ospedale, o di una scuola, o di un'azienda
di trasporti pubblici.
Ovviamente le ragioni per iscriversi potrebbero essere le piu' varie, dagli interessi piu'
egoistici alle motivazioni piu' nobili; ma comunque l'elettorato specifico cosi' costituito rappresenterebbe
la platea degli interessi sociali focalizzati su quella struttura di servizio,
e l'elezione del Consiglio di Amministrazione
avverrebbe ad opera di persone molto piu' informate e motivate sui problemi della struttura specifica
del cittadini medio - e si eviterebbe la chiusura corporativa tipica di un Consiglio eletto dal solo personale
dell'ente stesso.
Se un simile modello di partecipazione si dimostrasse valido, potrebbe essere esteso alle grandi aziende di
interesse sociale (banche, manifatture, comunicazioni ...),
che non sarebbero quindi statalizzate, ma socializzate,
creando cosi' quella societa' civile socialista la cui mancanza ha contribuito alla vittoria del
totalitarismo staliniano, settant'anni fa.
Spero sia evidente l'intenzione che sta dietro a questi appunti: evitare tanto la rimozione delle
vicende dell'iniziativa socialista e del comunismo storico novecentesco, quanto gli atteggiamenti
nostalgici e acritici
per trarne tutti gli insegnamenti,
innanzitutto teorici, che ci permettano di comprendere la situazione attuale e di assegnarci dei compiti politici.
In particolare, ragionare di societa' civile e imprenditorialita' socialista (non ci si riferisce,
ovviamente al PSI di Craxi ...) aiuta a tenere insieme in modo coerente, una certa impostazione
dell'attivivita' sindacale, il modo di rapportarsi in generale all'organizzazione economica capitalistica e ai suoi
prodotti, e le possibilita' di costruire in positivo esperienze, organizzazioni, criteri, leggi, organismi di
controllo e quant'altro si scoprira' strada facendo, che avviino un processo di transizione verso un
modo di produzione piu' libero, giusto e ambientalmente sostenibile.
Un altro mondo e' possibile.
Giovanni Talpone
Milano, 12/1/2002
(rivisto il 21/5/2002)