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Questo
testo si propone di discutere le scelte di IBM, sia a livello mondiale (le
politiche di IBM World Trade), sia livello italiano (le decisioni di IBM Italia
S.p.a), cercando di metterne in evidenza gli aspetti per noi meno
comprensibili, le eventuali contraddizioni, e, cosa più importante di tutte, le
possibili alternative e le conseguenze
di queste per i dipendenti di IBM(1).
IBM World Trade oggi
L'offerta
commerciale e le politiche di intervento sui mercati.
Dalla
storia di IBM si possono evidenziare una serie di temi che sembrano
caratterizzare l'azienda sul lungo termine.
1)
Il nucleo duro "Hardware del Mainframe". Fin dalla fine degli
anni '50 la forza di IBM si basa sull'offerta di grandi macchine
affidabili pensate per le grandi
imprese: banche, assicurazioni e amministrazioni pubbliche in primo luogo. (Per
questo IBM fin dall'inizio insiste sul concetto delle "Business
Machines", per segnare la differenza dai computer da
laboratorio, magari con prestazioni molto elevate ma meno affidabili.) Anche se
la potenza delle grandi macchine degli anni Cinquanta è paragonabile a quella
di un telecomando da TV di oggi, questa posizione sul mercato è stata
conquistata e tenacemente difesa per
mezzo secolo, ed è tuttora un elemento strategico di IBM (oggi
principalmente tramite la “z/series", diretta discendente dei primi
pionieristici mainframe degli anni Sessanta, dei sistemi S/360, S/370 e
successivi). Molta della ricerca scientifica sulle proprietà dei materiali e
sulla loro utilizzabilità tecnologica
per produrre elaboratori sempre più potenti e sicuri è indirizzata tuttora a
mantenere questo monopolio.
2)
Difficoltà a propagare e mantenere questa leadership tecnologica verso
macchine e dispositivi medi e piccoli. IBM ha spesso cercato di occuparsi
di stampanti, dischi, schermi, dispositivi di rete, elaboratori di media
potenza, stazioni di lavoro, elaboratori personali, terminali bancomat e molti
altri dispositivi, ma molto spesso basandosi su tecnologie di terzi, lanciando
e sciogliendo alleanze industriali, entrando e uscendo (in qualche caso
addirittura più volte) da mercati e filiere produttive. L'elemento comune
sembra l'incapacità di IBM di utilizzare la tecnologia non solo per costruire
"gioielli" ma per intraprendere con successo produzioni di massa. La
storica vendita della linea PC alla cinese Lenovo è solo l'ultima conferma di questa
strategia, o forse limite culturale e organizzativo di IBM. Naturalmente
l’azienda di Armonk non può fare tutto, ma la critica non riguarda questo, ma i
costi per l’azienda di scelte e controscelte che appaiono più dettate dalla
ricerca di ritorni a breve e dai conflitti fra gruppi di potere interni che da
una visione manageriale chiara. Come risultato, si ha una persistente carenza
di idee e di investimenti in nuove tecnologie industrializzabili, tali da
garantire una leadership tecnologica, vera e riconosciuta come tale dal
mercato.
Per
illustrare quanto la cultura e l’organizzazione di IBM porti quasi
inevitabilmente a questi deludenti risultati, riportiamo a titolo di esempio un
aneddoto che, pur non recentissimo e riguardando in realtà del software, dà bene
l’idea di come “funziona” l’azienda in cui lavoriamo.
Bill
Gates ricorda divertito cosa successe quando IBM dovette decidere se
intraprendere o no lo sviluppo del DOS: il comitato incaricato di valutare il
progetto aveva forse più membri del gruppo di sviluppo di Bill, e (vista la
differenza di retribuzioni), forse il processo decisionale costò di più a IBM
di quanto non costò a Microsoft lo sviluppo vero e proprio. Il fondatore di
Microsoft ricorda con accenti quasi manzoniani: “Ero di fronte a un gruppo di
persone, ciascuna delle quali aveva il potere di dire di no, ma nessuna delle quali
aveva il potere di dire di sì”.
3)
La decisione degli ultimi anni di presidiare anche l'area del calcolo
tecnico-scientifico di potenza (con la “p/series”) potrebbe essere
l'unico caso di successo strategico nel creare una seconda opzione tecnologica
forte oltre al mainframe. In un certo senso costituisce la sintesi
della dialettica all'interno dell'industria informatica di venti o trent'anni
fa, se gli laboratori dovessero essere innanzitutto pensati per il calcolo
scientifico oppure per gli affari.
Queste
sono macchine destinate non solo alla ricerca scientifica ma anche agli altri
utilizzi "pesanti", quelli che contribuiscono alle scelte dei poteri globali: nucleare, genetica,
nanotecnologia, biologia medica, prospezioni geologiche, elaborazione e
interpretazione di immagini, spionaggio delle reti di comunicazione ecc. .
Notiamo di sfuggita, ma ci torneremo, che questi argomenti sono poco
frequentati nelle periferie dell'impero come l'Italia, in cui un segno di
fedeltà ai dominatori può essere anche la rinuncia a una politica propria in
questi campi ed il limitarsi a finanziare (poco) ricerche marginali e vassalle.
4) Le scelte sul software mappano abbastanza bene quelle dell'hardware, con la forte difesa del software per
mainframe, una notevole presenza nel middleware (ambienti in cui vengono sviluppate, integrate e fatte girare
le applicazioni) e la resa alla concorrenza in altre aree (in particolare PC e applicazioni di business).
Il software però ha delle caratteristiche peculiari che creano situazioni più complesse e più difficili da leggere.
Nel campo delle stazioni di lavoro, la diffusione dello standard Unix prima
e del vero e proprio sistema operativo "aperto" Linux sta mantenendo la situazione molto fluida,
e sarebbe meritevole di approfondimento; in particolare, è interessante notare il forte sostegno
del mondo open source da parte di IBM; non solo Linux, ma anche il linguaggio ad oggetti Java
e vari altri software, tra cui il diffuso ambiente di sviluppo Eclipse creato da IBM e ceduto gratuitamente
a una fondazione non-profit.
Per il software di rete si è assistito a una spartizione analoga, con lo SNA proprietario di IBM che garantisce
le pregiate comunicazioni dei mainframe tipicamente di banche e assicurazioni (si tratta di denaro elettronico!)
mentre lo standard aperto TCP/IP è adottato da IBM per quasi tutto il resto (a incominciare da Internet, ovviamente,
da cui è decollato).
Se dai sistemi operativi e di rete ci si muove verso il software più vicino all'utente finale, le contraddizioni
di IBM aumentano ulteriormente. IBM ha comperato a caro prezzo la Lotus e ne ha lasciato morire alcuni tradizionali
prodotti di informatica individuale office (2);
ha lanciato sul mercato uno dei primi Data Base relazionali (il DB/2), per poi lasciarlo diventare obsoleto,
per poi spendere una montagna di quattrini per aggiornarlo e riconquistare una fetta di mercato.
Nel mondo applicativo, abbiamo assistito alla contraddittoria
vicenda di COPICS, prodotto per pianificare le risorse produttive di impresa: una ventina di anni fa IBM decise
di dismetterlo; i suoi sviluppatori, di contrario avviso, uscirono da IBM Germania e crearono quel prodotto di
successo mondiale chiamato SAP, proprio basato sull'esperienza accumulata con COPICS.
O perché era anche il tempo del primo declino di DB/2, o per qualche altra ragione, gli sviluppatori di SAP,
avendo necessità di appoggiarsi a un Data Base, puntarono sull'integrazione con il concorrente più dinamico di DB/2,
Oracle, che rimane tutt'ora il DB di elezione per chi adotta SAP. Oggi IBM è diventato un DISTRIBUTORE di SAP,
contribuendo così inevitabilmente alla diffusione di Oracle a scapito di DB/2 ...
Quello
che risulta evidente, è che IBM non ha mai voluto o potuto costruire dei
laboratori software che le dessero un predominio assoluto di ricerca
scientifica paragonabile all'hardware; e ciò è tanto più vero quanto più ci si
allontana dei sistemi operativi e ci si avvicina all'organizzazione di impresa.
Risultato: la mancanza di software applicativi proprietari, in grado di fare da
testa di ponte verso il cliente e veicolare la tecnologia di infrastruttura.
Per
scrivere software applicativo non basta avere buoni programmatori; bisogna
innanzitutto avere persone capaci di vedere e pensare l'impresa moderna. Questo
sembra il grande limite di IBM, che ritornerà spesso anche affrontando temi
diversi da differenti punti di vista.
5)
Una piramide mozza: i servizi. Intendendo per semplicità (e al di là dei
pittoreschi cambiamenti di nome proposti di volta in volta) "servizi"
tutto ciò che viene fatturato ai clienti senza essere vendita di hardware e software, i servizi che IBM
propone ai suoi clienti coprono una gamma vastissima, dal trasloco di computer
all'hackeraggio etico (la simulazione di attacchi ai computer per verificarne
gli allarmi e le difese), dal ripristino dei centri di calcolo in caso di
disastro al finanziamento di progetti informatici, dalla riparazione dei guasti
degli apparecchi elettronici alla formazione del personale, dal cablaggio degli
edifici alla presa in carico di interi Centri Elaborazione Dati, eccetera
eccetera.
Ovviamente,
molti di questi servizi non vengono realizzati direttamente da personale IBM,
ma sono subappaltati a una fitta rete di consociate, controllate e fornitori;
IBM però normalmente garantisce al cliente almeno la gestione del progetto, il
rispetto delle clausole contrattuali e dei tempi di consegna (o il pagamento di
penali in caso di inadempienze) e con ciò giustifica i generosi ricarichi
praticati sui prezzi offerti dai propri fornitori.
Volendo
costruire una piramide per complessità, alla base troviamo i servizi
all'hardware e al software di base e di rete, poi crescendo abbiamo la
manutenzione al software applicativo, la realizzazione di nuove applicazioni,
la pianificazione di progetti di sviluppo a lungo termine e/o di integrazione
di reti e centri di calcolo distribuiti in vari Paesi, la consulenza
strategica. Per usare linguaggio di moda in questi anni in IBM, si passa da
servizi prevalentemente "a costo" alla base della piramide
fino ad arrivare a servizi sempre più "a valore" alla sua
sommità.
Nell’area
dei servizi posti alla base della piramide, vale a dire i servizi di base
nell’infrastruttura informatica, Windows, reti, sistemi operativi, internet, il
mercato è molto competitivo in fatto di prezzi; mentre nella parte alta della
piramide, in cui stanno i servizi strategici e di riprogettazione dei processi
aziendali, le competenze devo essere molto spinte fino a diventare competenze
di nicchia, spesso molto pregiate. Quindi per affrontare il mercato dei servizi
l’IBM è compressa tra un mercato altamente competitivo, fatto di piccoli
operatori, e da un mercato di competenze fatto di specialisti con un know-how
a volte ristretto a pochi, con una connotazione di competenza specialistica da
libero professionista, più che da impiegato aziendale.
Anche
se quasi certamente spinta da ragioni contingenti, IBM ha giustificato
l’acquisizione nel 2002 del ramo informatico e consulenziale di PriceWaterhouse
Cooper come opportunità per rinforzare la propria competenza nel campo
della consulenza all'alta direzione delle imprese. Le risorse umane provenienti
da questa acquisizione sono state affiancate a persone con competenze analoghe
provenienti da IBM e hanno dato origine alla Line Of Business “Business
Consulting Services (BCS)”. Le vicende di BCS sono descritte dal
contributo di un collega, riportato in Appendice con il titolo di “Ragioniamo
su IBM BCS”, che giudichiamo molto interessante e a cui rimandiamo. Qui
vogliamo solo ricordare qualche domanda che finora non ha avuto risposta:
L'organizzazione
di IBM WT e la politica di intervento sui mercati
1)
Organizzazione. E' del tutto comprensibile che la varietà di offerte e
di geografie in cui IBM è presente generino un'organizzazione vasta e
complessa, e di difficile gestione. Sarebbe logico aspettarsi che IBM stessa
fosse un laboratorio delle più sofisticate soluzioni tecnologiche di supporto all'organizzazione
d'impresa, e oltre a fruire delle primizie dell'innovazioni per sé stessa,
costituisse poi il centro propulsore di queste innovazioni verso i clienti, per
lo meno quelli più simili per dimensione e problematiche. Nulla di tutto
questo. E' motivo di sorpresa per tutti gli esterni che entrano a lavorare in
IBM scoprire come l'organizzazione sia supportato da un patchwork delle
più disparate applicazioni acquistate dai più diversi fornitori o costruite
all'interno anche dieci o quindici anni fa, facendo riferimento di volta in
volta a differenti paradigmi organizzativi, e quindi inevitabilmente in assenza
di un qualsiasi riconoscibile disegno unitario.
La
giustificazione ufficiale (da anni...) è che la rapida trasformazione
organizzativa di IBM renderebbe impossibile o quantomeno antieconomico
razionalizzare il sistema informativo aziendale, per cui l'unica soluzione
praticabile diventa quella di procedere per giunte e rattoppi. Questa
giustificazione si scontra con numerose obiezioni:
a)
molte grandi aziende gestiscono complessità e velocità di trasformazione
analoghe: sono tutte altrettanto approssimative nell'automatizzare i propri
processi?
b)
e comunque, in questo campo, IBM si può considerare all'avanguardia o alla
retroguardia?
d)
quanto investe IBM in ricerca organizzativa su se stessa e su imprese analoghe?
Con quali risultati?
c)
a fronte di richieste sempre più stringenti di controlli e riscontri (dalla
legge Sarbanes-Oxley(3) alla certificazione ISO 9000), quanto
costa continuare a eseguire migliaia di controlli giornalieri in tutto il mondo
a mano, stante la scarsa automazione dei flussi di dati scambiati dalle varie
applicazioni?
d)
quando perde IBM per le irregolarità che obbligano a rilavorazioni
amministrative? E quanto per la scarsa possibilità di fare data mining
serio sulle proprie basi dati?
Esiste
una possibile risposta alternativa, anche se piuttosto sconfortante. Anno dopo
anno, il gruppo dirigente di IBM negli USA è riuscito a isolare dalla pressione
delle necessità finanziarie e commerciali quotidiane almeno la ricerca di base
sui materiali e l'innovazione dei mainframe e del loro sistema
operativo.
E
NULL'ALTRO. Tutto il resto, e il particolare il mondo delle applicazioni e
quello ad esso strettamente intrecciato della cultura d'impresa (base di
qualsiasi offerta di servizi "a valore"), è affidato prevalentemente
alla necessità di fare la quota commerciale trimestre dopo trimestre. Tutto
quanto supera questo modesto e ossessivo orizzonte temporale viene rinviato all'infinito
ad altri tempi e ad altre responsabilità. Se IBM fosse una persona, forse uno
psicologo arriverebbe alla conclusione che nel profondo IBM valuta i circuiti
di un mainframe come seri e importanti, e l'organizzazione d'impresa, al
contrario, come pure "chiacchere".
Ma
se questo è il retropensiero di IBM, l'obiettivo di arrivare alla cima della
piramide del valore, di diventare consulenti strategici per i propri clienti è
perso in partenza: chi non è in grado di presentare innanzitutto sè stesso come
modello di impresa, è inevitabilmente destinato ad essere percepito
principalmente come fornitore e manutentore di "ferro".
2)
Politica di intervento sui mercati. All'inizio del 2005 l'azienda ha
descritto con inusuale franchezza la propria visione del mondo (Sam Palmisano
agli analisti finanziari, maggio 2005).
Per
IBM, le aziende si possono dividere in due categorie, in funzione di come
operano sui mercati delle tecnologie:
A)
quelle che creano e propongono nuove tecnologie
B)
quelle che distribuiscono le tecnologie esistenti nel modo piu' efficiente ed
economico possibile.
IBM si colloca nel tipo A), e quindi deve costantemente
abbandonare le tecnologie mature e a margine di guadagno declinante (gli esempi
citati sono: le memorie a disco fisso, gli schermi, le memorie a stato solido,
e, recentemente, gli elaboratori personali (allenanza con la cinese Lenovo)) e
muoversi verso quelle emergenti.
A
quest'ultimo fine, dal 2002 a tutto il primo trimestre del 2005 sono state
acquisite 38 aziende.
Esempi
di impegno per l'innovazione sono:
-
gli investimenti per piu' di un miliardo di dollari per sviluppare le nuove
architetture hardware "Power 4" e "Power 5", che hanno
potenziato i serventi IBM e sono destinate a entrare anche nel mercato dei
videogiochi di fascia alta,
-
la scelta di sviluppare software "open source" (con codice
sorgente a disposizione del cliente),
-
l'offerta di servizi "On demand" (in cui il cliente non compra
macchine e programmi ma paga per ricevere servizi finali, esternalizzando cosi'
molte o tutte le funzioni del proprio centro di calcolo).
Dal
punto di vista organizzativo, IBM divide la propria storia in tre fasi:
Palmisano ironicamente cita come caso-limite
l'Italia, in cui, gli hanno detto, nel 2020 ci sara' un pensionato per ogni
occupato; e comunque anche in Francia e la Germania nel 2025 ci sara' piu' di
un pensionato ogni tre occupati), le nazioni su cui puntare sono le quelle
come il Brasile, la Russia, l’India, la Cina, in cui nel 2004 IBM ha avuto una
crescita del 25%. Piu' in generale, nei mercati in forte sviuppo IBM ha
aumentato gli investimenti del 40% e i propri dipendenti del 30%. Inoltre, oggi
si puo' puntare a un modello organizzativo INTEGRATO GLOBALMENTE; quindi, non
si disinveste in Europa Occidentale e in Giappone per ricostruire un'IBM
multinazionale nei Paesi a forte sviluppo, ma si punta direttamente a un NUOVO
MODELLO GLOBALE. Alcuni esempi: una volta c'erano 300 uffici nel mondo che
gestivano gli acquisti, oggi sono 3: Shanghai, Bangalore e Budapest;
l'assistenza ai clienti e' stata in parte portata piu' vicina ai clienti
stessi, e in parte concentrata su 4 centri di servizio in Malesia, Slovacchia,
Spagna e Brasile; e cosi' via ...
Così
parlò il numero uno di IBM WT.
La
dichiarazione di Palmisano ha suscitato qualche mugugno da parte nostra, nel
miglior stile vecchia Europa: come si permette, dannato yankee, di fare
questo A NOI EUROPEI?
Esaminata
la questione freddamente, emerge che abbiamo un grande torto ma anche una certa
ragione. Il grande torto sta nel non esserci resi ben conto che, con il
superamento del fordismo, si sono vanificate anche le ragioni (su cui sono
corsi fiumi di inchiostro) per le quali il primo mondo rimaneva primo e il
terzo, terzo. Oggi esiste un gruppo di Paesi ad alto tasso di sviluppo,
proveniente dagli ex Secondo e Terzo Mondo, indicato per brevità dalla sigla “BRIC”
(Brasile Russia India Cina): due provengono dalla riforma (almeno economica)
dei Paesi stalinisti, e due (Brasile e India) sono Paesi di tradizione
occidentale che trovano ora la strada per formare non più solo borghesie
compradore, ma vere e proprie classi dominanti interessate allo sviluppo
economico di almeno una parte del loro Paese. Questo è un elemento del tutto
nuovo, sul quale almeno in Italia si preferisce sorvolare o dare giudizi
ideologici precostituiti piuttosto che informarsi sulle circostanze effettive.
Detto
questo, e riconosciuto il diritto di ogni Paese allo sviluppo, rimane una
preoccupazione legittima. I Paesi del BRIC arrivano allo sviluppo in un mondo
già sovrappopolato, con carenza crescente di materie prime, energie, acqua,
terra coltivabile e aree di conservazione della biodiversità. Essi non stanno
contribuendo con una maggiore saggezza a gestire le sempre più scarse risorse
del pianeta, ma al contrario stanno dimostrando una spregiudicatezza nel loro
uso e abuso degno della peggiore Europa, e con gli immensi mezzi di oggigiorno.
Inoltre, il più forte di loro - la Cina - non ha una cultura molto radicata di
rispetto della libertà, della democrazia e dei diritti umani, valori peraltro
non particolarmente rispettati neppure in Russia, in India o in Brasile.
Insomma,
questi Paesi rischiano di irrompere troppo tardi in un mondo già troppo pieno
di gente e impoverito di risorse dall'imprevidenza dei primi arrivati. Questo, unito
alla bassa età media della popolazione, può portare a un'instabiltà sociale e
politica in grado di vanificare i vantaggi del tasso di sviluppo a due cifre
che tanto affascinano i nuovi investitori globali. Da questo punto di vista,
l'Europa dispone per lo meno di un vantaggio competitivo: si è abituata a
convivere da lungo tempo con l'industrializzazione e la sovrappopolazione, e,
dopo la tragedia dei regimi totalitari e delle guerre mondiali, ha elaborato
una netta propensione alla stabilità, alla pace, alla democrazia e alla
creazione di effettive strutture sovranazionali impensabili negli altri
continenti. Avrebbe il dovere di indicare a tutti con l’esempio la strada della
convivenza e dello sviluppo sostenibile, e purtroppo non lo fa, ma non è facilmente
rimpiazzabile come area di sviluppo magari lento ma stabile.
D'altra
parte, la politica "bricchista" permette a IBM di rinviare ancora una
volta l'esame dei problemi strutturali di IBM stessa: in fondo, per soddisfare
la domanda di infrastrutture informatiche di base (centri di calcolo e
interconnessioni) sarebbe andata abbastanza bene anche l'organizzazione di
vent’anni fa ...
Il
discorso di Palmisano contiene un’affermazione perlomeno discutibile e una
grande omissione.
L’affermazione
discutibile riguarda l’autoclassificazione di IBM nel tipo di impresa A. E’ un ulteriore indizio del
retropensiero di cui si parlava prima: infatti l’affermazione è senz’altro vera
prevalentemente nell’area del mainframe e delle stazioni di lavoro di potenza.
Ma, a mano a mano che ci si allontana da questo nucleo duro (l’unico a cui
evidentemente l’alta direzione dedica veramente attenzione), IBM diventa
inesorabilmente un’azienda di tipo B, su cui le diseconomie organizzative hanno
un effetto micidiale. Gli stessi dipendenti lavorano prevalentemente
utilizzando sistemi operativi Microsoft, utilizzano Siebel (Oracle) per tenere
i rapporti con i clienti, e probabilmente fra poco vedranno arrivare macchine
Lenovo sulle proprie scrivanie. La documentazione dei processi viene fatta
utilizzando Vision (MS), e anche all’interno Excel e Power Point (MS) stanno
soppiantando WordPro e 1-2-3 (Lotus-IBM). Tranne qualche eccezione, come
l’approvvigionamento o le relazioni con i clienti (modulo SAP), le procedure
amministrative sono generalmente basate su vecchie applicazioni programmate
dieci o vent’anni fa. Qual è la probabilità che siano rimpiazzate da prodotti
applicativi realizzati da IBM in base alla sua “straordinaria” cultura
d’impresa? Persino quando viene acquisita un’azienda come Rational, che
è specializzata in quest’area, l’organizzazione interna rimane impermeabile.
La
direzione IBM tende a sottovalutare il costo di questi insufficienti
investimenti nella razionalizzazione applicativa interna, al punto di aver
ridotto grandemente negli anni il supporto amministrativo e segretariale
nell’ipotesi di aver sopperito con la maggiore automazione dei processi e delle
funzioni. Il risultato effettivo, è stato quello di “spalmare” su figure
professionali molto più costose parecchie delle attività prima svolto dal
personale amministrativo e segretariale.
E
tutti questa organizzazione – persone e macchine - strumenti servono sempre di
più per acquistare, assemblare e rivendere prodotti e servizi fornita da altre
aziende, che per sviluppare e vendere tecnologia IBM. Forse, se questa azienda
accettasse l’idea di essere – come di fatto è – per almeno il 50% un’azienda di
tipo “B”, incomincerebbe a ripensarsi più seriamente.
Naturalmente
non si può chiedere a nessuna azienda di fare tutto ed essere brava in tutto.
Il fatto è che IBM nell’ultimo decennio ha ribaltato le percentuali di
fatturato fra HW, SW e servizi, sbilanciandosi a favore di questi ultimi, senza
però costruire in questi una “base sicura” e un “vantaggio
competitivo” paragonabili a quelli che ha nei mainframe. Dovrebbe
essere chiaro che una delle domande fondamentali che stiamo ponendo con questo
documento riguarda le ragioni di questa limite, con i suoi ovvi riflessi sui
livelli professionali e sulla sicurezza del posto di lavoro per centinaia di
migliaia di colleghi in tutto il mondo.
La
grande omissione. Rimane
irrisolto il conflitto fra gestione delle persone e delle attività focalizzata
sul trimestre (per subordinazione alla cultura della speculazione finanziaria)
e i tempi richiesti per stare sui mercati “a valore”: tanto i clienti quanto le
necessità stesse dei grandi progetti richiedono rapporti stabili e verifica dei
risultati su periodi pluriennali. Misurare questa valorizzazione di medio e
lungo termine è proprio ciò che IBM non può e/o non vuole fare, intenta com'è a
contare dollari ed euro trimestre dopo trimestre. Ma in questo modo
inevitabilmente rischia anche di capire poco i problemi di coloro che producono
farmaci o velivoli, i quali hanno necessariamente per orizzonte temporale il
decennio e oltre, e più in generale dei clienti che operano in tutti i campi in
cui l'informatica è chiamata a contribuire allo sviluppo di risorse
strategiche.
IBM
in passato sapeva che per stabilire relazioni importanti con i clienti servono
anni di impegno, e su ciò si era basata la strategia di vendita che ha dato i
maggiori frutti: la relazione con il cliente, costruita dai rappresentati di
relazione e dagli “Account SE” allocati stabilmente presso di lui,
portava ad una profonda conoscenza dell’azienda cliente e delle sue esigenze.
Si riusciva così a fornire la soluzione giusta al momento giusto e a evitre di
proporre soluzioni che non servono a clienti che non ne hanno bisogno, con
inutili forzature di mercato e di vendita.
La
gestione IBM delle risorse umane (almeno a giudicare dal nostro osservatorio italiano)
è fin troppo coerente con questo miope
approccio. Lo sviluppo professionale dei dipendenti non è gestito dall’ufficio
del personale – il quale, almeno in linea di principio, potrebbe essere
portatore di una visione strategica che superi le esigenze contingenti – ma è
affidato principalmente ai capi, interessati soprattutto a far quadrare i conti
trimestre dopo trimestre. E il criterio base è la massimizzazione dell’Utilization
Rate, la percentuale di ore fatturate al cliente sulle ore di lavoro
totali TEORICHE (cioè SENZA TENER CONTO di ferie, malattie, corsi). Ora, come
misuratore, l’Utilization Rate è assolutamente un parametro “a costo”
e non “a valore” (come potrebbe essere invece, per esempio, il rapporto fra
il prezzo a cui è stato riconosciuto un servizio IBM e il prezzo medio di
mercato), e come tale spinge tutta l’attività di servizio nella direzione
opposta a quella proclamata dai vari “numeri uno” mondiali e locali. Con questo
approccio, inevitabilmente uno dei ruoli più richiesti è il tappabuchi, cioè la
persona disponibile a saltabeccare da un progetto all’altro senza seccare la
propria linea con le fesserie scritte nei vari Skill Inventory e Individual
Development Plan: l’importante è massimizzare l’Utilization Rate e
gli altri indicatori formali di performance a livello di reparto, non
certo lo sviluppo degli specialisti e l’allocazione ottimale delle risorse a
livello d’impresa. Ciò inevitabilmente all’interno dell’azienda distrugge
professionalità e motivazione (se non bastassero già per questo la quota
crescente di tempo dedicata alle incombenze burocratiche e la quota declinante
di persone autorizzate a partecipare ai corsi), e all’esterno diffonde
l’immagine di un’azienda che fornisce soprattutto lavoranti informatici
generici, (attività chiamata simpaticamente “Body Rental”, AFFITTO
DI CORPI), a questo punto sì, troppo costosi.
Questo uso disinvolto delle persone e delle loro competenze ha poi l'ulteriore
conseguenza di svuotare di ogni credibilità i programmi di valutazione e di incentivo
individuale: se i capi stessi li prendessero sul serio, dovrebbero rivedere obiettivi
e misuratori ogni volta che una persona viene spostata da un "buco" da tappare a
un altro, particolarmente quando si è in presenza di attività non omogenee fra di loro,
e quando ciò succede più volte in un anno. La grande maggioranza dei capi, anche
perchè oberata dalle "scomparse" attività segretariali, sopperisce invece dando obiettivi e
misuratori general generici, buoni sempre ed ovunque, e facendo capire che non ha
nessuna intenzione di giustificare con misuratori quantitativi e oggettivi perchè
Tizio è valutato 1 e Caia 3. E' vero che la certificazione ISO 9000 della gestione
delle risorse umane non dice di fare così, ma essendo l'ennesima seccatura a cui
dedicare il minor tempo possibile, ha qualche importanza?
Con
questo approccio (obiettivi a breve termine e “tutto il potere ai capi”),
persino una scelta drammatica ed estrema come la riduzione del personale
finisce per sortire effetti contrari a quelli desiderati da un capitalismo
spietatamente darwinista. Se l’obiettivo prioritario a breve per i capi diventa
in un certo periodo la riduzione del personale, scompaiono esigenze come passaggio
di consegne e training-on-the-job per affiancamento; relazioni personali
con i clienti costruite in anni di lavoro valgono meno del pezzo di carta su
cui firmare le dimissioni. E chi saranno i bersagli favoriti dei tagliatori di
teste? Ma naturalmente i possessori delle professionalità più ambite dal
mercato del lavoro: saranno i più lesti a lasciar libere le scrivanie. Certo,
in termini sociali generali e per gli individui che se ne vanno, questa è
effettivamente la soluzione meno dolorosa. Ma cosa succede all’azienda, e a chi
rimane a lavorarci, il giorno dopo? (4)
IBM Italia
Ai
problemi di IBM in generale, IBM Italia ne aggiunge purtroppo dei suoi
specifici.
1) Innanzitutto l’essere
periferia.
In un’azienda in cui l’alta direzione imprenditoriale fosse a disposizione per
interloquire con i quadri intermedi, questi ultimi avrebbero due funzioni: da
una parte trasmettere le disposizioni verso il basso (un ruolo di ordine e di
disciplina), dall’altra fornire all’altra direzione avvertimenti, suggerimenti,
consulenza (un ruolo critico e progettuale); in questo modo il cursus
honorum interno dovrebbe tener conto di entrambi gli aspetti del ruolo del
dirigente. In un’azienda senza autonomia imprenditoriale come IBM Italia,
l’unico ruolo ammesso per un dirigente è il primo: inevitabilmente si crea un
meccanismo selettivo e di cooptazione in cui è sistematicamente favorito lo yes-man
che ha capito che qualsia si iniziativa
individuale fuori linea è inevitabilmente condannata al fallimento. Si crea così una casta di virtuosi nell’evitare
responsabilità e decisioni e nel rimandare la soluzione dei problemi fino a
quando non arriva un messaggio in posta elettronica che dice come bisogna fare.
(A indiretta conferma di ciò, possiamo ricordare i modestissimi risultati
ottenuti dai dirigenti di IBM Italia una volta usciti e passati a lavorare in
altre aziende, in cui fosse richiesta la capacità di assumersi delle
responsabilità vere, e non semplicemente garantire le “cascade” di
decisioni prese più in alto.) Non essendo la capacità di operare scelte vere e introdurre
importanti innovazioni una qualità giudicata positivamente per far carriera in
IBM Italia, rimane solo lo sforzo di far apparire rispettate formalmente le
infinite regole della company e nel cercare di scaricare i problemi
reali su altre funzioni e/o sui successori. Il manager “yes-man” reca un
ulteriore danno all’azienda: per mostrarsi allineato, non porta dei feed-back
oggettivi alla casa madre relativamente alle problematiche del mercato locale e
dei clienti locali, creando così una dicotomia, tra quello che il mercato
realmente è, e quello che la casa madre si aspetta che il mercato sia. Questo
comportamento crea una vera e propria barriera comunicativa all’interno di IBM,
perché l’Head Quarter non è messo in grado di valutare se, quanto, come,
le scelte operative siano state efficaci per un determinato mercato “locale”.
D’altra parte, se i dirigenti di Paese si comportano effettivamente così, non
può che significare che Armonk preferisce assumersi questi costi e questi
rischi pur di fruire di un’obbedienza cieca, pronta e assoluta delle provincie
dell’impero.
Comunque sia, questo quotidiano “massaggio” ai dati di realtà
risulta un impegno molto gravoso per il singolo dirigente: ecco quindi la
necessità di scambiare la connivenza di alcuni collaboratori con la promessa di
non essere dimenticati in caso di promozione: è il meccanismo delle “cordate”,
che esternalizza le diseconomie al di fuori di questi gruppi informali (questo
meccanismo è ulteriormente oliato dalla pratica del nepotismo nelle assunzioni
e delle promozioni). Si noti come tutto ciò sia assolutamente coerente tanto
con la focalizzazione sui risultati di trimestre (le diseconomie normalmente si
manifestano su tempi più lunghi) quanto sul depotenziamento dell’ufficio del
personale (il dipendente è in tutto e per tutto nelle mani del proprio capo).
L’interiorizzazione dell’indiscutibilità delle decisioni IBM è talmente forte
da sortire curiosi effetti in occasione dell’ultima moda del 2005, i forum
di discussione e di proposta da parte dei dipendenti alla direzione. Iniziativa
in sé lodevole(5), che si scontra però con l’insopprimibile impulso dei
dirigenti a rispondere quasi sempre: “IBM funziona così e va benissimo così”.
Ma allora, se tutto è perfetto o immodificabile, cosa servono i forum?
L’idea che le decisioni prese in alto siano
razionali e indiscutibili non è tipica solo dei capi, ma è purtroppo fatta
propria dalla grande maggioranza dei dipendenti, con il risultato – triste e
grottesco insieme – che ogni banale errore aziendale viene fantasiosamente
reinterpretato come una giusta decisione inscritta in una razionalità
superiore. Un esempio fra i tanti è costituito dai due incendi scoppiati a Segrate
e a Vimercate negli anni scorsi (fortunatamente senza danno fisico alle
persone). Molti dipendenti hanno discettato sulla razionalità del “rischio
calcolato”, per cui la direzione avrebbe computato scrupolosamente il rapporto
fra costo del rischio e costo della prevenzione, e si sarebbe comportata quindi
nel modo economicamente più vantaggioso. Per costoro, è impossibile concepire
che di pura e semplice irresponsabilità e incuria si tratti, e che il danno
vero non è quello rimborsato dall’assicurazione, ma la difficoltà successiva a
convincere i clienti ad affidare i propri centri di calcolo a IBM: stiamo
parlando del cosidetto Strategic Outsourcing, caratterizzato da
contratti pluriennali.
Vale a dire, lo stiamo vedendo (e pagando,
l’azienda e tutti noi) adesso, il danno.
2) Il mercato su cui opera
IBM Italia non è simile a quello degli USA e dei grandi Paesi europei: la Pubblica Ammistrazione
ha aumentato da pochi anni la spesa per l’informatica, e con procedure di
fornitura molto rigide; similmente la concentrazione dei gruppi bancari e
assicurativi solo recentemente è arrivata a un livello paragonabile agli altri
Paesi; al di fuori di pochi gruppi industriali di un qualche peso (i soliti
ENI, Fiat, Finmeccanica), IBM Italia ha di fronte o filiali italiane di gruppi
esteri, o una vasta platea di aziende che da noi si definiscono medio-piccole
ma che all’estero sarebbero considerate piccole e piccolissime. In queste
condizioni, la continua erosione di autonomia decisionale subita dalle “Countries”
ha avuto in Italia un effetto particolarmente devastante, eliminando anche quei
margini di manovra che avrebbero permesso di frequentare più facilmente un
mercato così atipico per le altre consorelle(6). Bisogna dire che comunque la
direzione di IBM Italia ci mette anche del suo, almeno a giudicare dalla
malcelata soddisfazione con cui si è liberata degli stabilimenti di Vimercate e
Santa Palomba(7), che producevano principalmente l’AS/400, proprio una delle
macchine preferite dai piccoli imprenditori italiani, e dalla prontezza con cui aveva “infilato” nella Joint Venture
con Fiat (ormai sciolta) lo sviluppo e l’aggiornamento dell’unico prodotto software
autoctono, le ACG (Applicazioni Contabili Gestionali). Il rapporto delle ACG
con la produzione di autoveicoli ci sfugge completamente, ma questo piccolo ERP
ha costituito finora, e potrebbe costituire ancora in futuro, un importante
momento di contatto con le piccole e medie imprese: perchè dare un simile
messaggio negativo? (Con questi precedenti, la solidarietà ai colleghi del
laboratorio Tivoli di Roma, oggetto di particolare attenzione manageriale in
questi giorni, è d’obbligo, visto che il focus riguarda ... in quale
angolo del pianeta spedire le attività svolte oggi in Italia). Insomma, alla
faccia dello zio Sam, l’ideale della direzione di IBM Italia sembra essere
un’azienda “tutta B”, che compra, impacca e rivende prodotti e servizi fatti da
altri (magari consorelle). Basta poi avere la faccia tosta di schernire chi
parla di deindustrializzazione in Italia ...
E’ comunque evidente che un mercato così
disperso e frazionato come quello italiano richiederebbe un impegno particolare
nel portare le forze di vendita il più possibile a contatto con i clienti. La
sensazione diffusa è che si stia andando invece nella direzione opposta: verso
un’ulteriore riduzione delle risorse che operano dai clienti, con una
scopertura del mercato che non potrà che avere la conseguenza di una
diminuzione della crescita; oltretutto in un momento congiunturale il quale
richiederebbe di presidiare maggioremente il mercato in modo da cogliere le
poche opportunità disponibili. Se poi le cose non andranno bene, la
responsabilità sarà “naturalmente” delle persone che operano in zona, le quali
non saranno riuscite a proporre i prodotti IBM con la giusta enfasi ...
UNA SVOLTA?
Su comportamenti, errori e contraddizioni di
IBM Italia rimandiamo agli altri documenti presenti sul sito delle RSU IBM:
quello più recente è stato preparato da Alfio Riboni con il titolo “Ragioniamo
sull’IBM”(9). Qui si vuole tratteggiare una possibile impostazione differente
da parte della direzione di IBM Italia a fronte della riorganizzazione
annunciata per il 4 luglio 2005.
Innanzitutto una breve sintesi dell’annuncio:
RISTRUTTURAZIONE
IN EUROPA OCCIDENTALE
· Dal 4 luglio 2005 vengono
ABOLITI:
o l'Europe Head Quarter (EHQ) di Parigi (rimangono a Parigi alcune
funzioni di coordinamento delle IOT e di interfaccia verso IBM Globale)
o le Region
da esso coordinate:
§ CEMA
(Europa orientale)
§ Central (Germania e altri)
§ Nordic (Scandinavia)
§ North (Gran Bretagna e
Irlanda)
§ South (Spagna, Grecia,
Israele, Italia, Turchia e altri),
§ West (Francia e altri)
· IBM opera in Europa
attraverso due strutture territoriali chiamate Integrated Operating Teams (IOT)
· Ognuno dei due IOT comprende
4 sottostrutture territoriali chiamate Integrated Market Teams (IMT)
· Vengono spostate verso il
basso dal vecchio EHQ agli IMT le decisioni riguardanti la determinazione dei
prezzi, i piani di vendita, i programmi di marketing e altre.
· Il Northeast Europe IOT ha
sede a Zurigo e comprende i seguenti IMT:
o Germania
o Gran Bretagna, Irlanda, Sud Africa
o La vecchia Region "Nordic"
(Scandinavia)
o CEMA (Europa orientale), Austria, Svizzera
· Il Southwest Europe IOT ha
sede a Madrid e comprende i seguenti IMT:
o Francia,
Nordafrica
o Italia
o Belgio, Olanda, Lussemburgo
o Spagna, Portogallo, Grecia Israele, Turchia
· Gli esistenti Centri globali
di eccellenza (Global centers of excellence) vengono mantenuti e ulteriormente
sviluppati
· L'esistente interfaccia
verso i clienti non cambia; i clienti dovrebbero rendersi conto dei cambiamenti
solo come maggiore vicinanza dei centri decisionali IBM alle loro esigenze.
· Non ci sono ristrutturazioni
analoghe previste per le Americhe e per l'Asia-Pacifico.
Nello spirito di questa ristrutturazione, le
due strutture “Integrated Operating Team” (IOT), che dirigono
mezza Europa ciascuna, dovrebbere essere più agili e meno invasive delle
vecchie Region ed EMEA. Questa struttura degli IOT è un po’ strana, al
di là del fatto che dovrebbero ridecentrare molto di quanto era stato
accentrato da EMEA negli anni scorsi; gli elementi di perplessità possono
essere:
-
viene
distrutto un importante punto unico di contatto fra IBM e normative della
Comunità Europea: entrambi gli IOT comprendo Paesi comunitari ed
extracomunitari;
-
geograficamente
le due sedi di coordinamento (Madrid e Zurigo) sono decentrate rispetto ai
propri territori: per esempio, Milano è molto più vicina a Zurigo di quanto non
sia a Madrid, ma è coordinata da Madrid, mentre Zurigo deve seguire anche
Mosca, qualche migliaio di chilometri più a Nord-Est ...;
-
neanche
l’approccio BRIC è stato seguito più di tanto, visto l’IOT di Nord-Est segue
tanto Paesi maturi come la Germania quanto emergenti come la Russia;
-
due
Paesi economicamente simili come Francia e Germania vengono seguiti da due IOT
diversi;
-
pare
che una delle competenze IOT sia quella di gestire i Sector(8), la cui
importanza relativa varia molto fra Paese e Paese (e non sembra che gli IOT
siano stati suddivisi per similitudine di Sector, ma piuttosto per contiguità
geografica, vista che è stata riutilizzata la vecchia frontiera Alpi-Reno, già
nota ai tempi di Giulio Cesare; insomma, se Attila si fosse posto il problema
di dividere l’Impero Romano, probabilmente l’avrebbe risolto più o meno così.)
Una novità interessante può essere l’”Integrated
Market Team” (IMT), che nel nostro caso coincide, come si è visto, con
IBM Italia stessa. IBM, non ammettendolo, anzi, a volte sostenendo
incredibilmente la continuità con le scelte del passato, INVERTE LA ROTTA DI
QUASI 180 GRADI E NEL 2005 TORNA A DELEGARE, DI FATTO, ALLE COUNTRIES
ALCUNI DI QUEI POTERI POTERI CHE ANCORA NEL 2004 STAVA SOTTRAENDO E ACCENTRANDO
A LIVELLO EMEA (la struttura che ora scompare). Nel documento di Riboni c’è una
sezione dedicata alla politica di comunicazione di IBM, alla quale rimandiamo,
limitandoci a osservare che, in un periodo di incertezza generale, fare
comunicazioni elusive e dichiarazioni palesemente insostenibili sia puro
autolesionismo, per quanto in linea con i comportamenti delle massime autorità
dei Paesi di appartenenza (USA e Italia), perchè la gente ha sempre più bisogno
di punti di riferimento credibili. Qui vogliamo invece capire quali siano le
caratteristiche della nuova struttura e le possibili conseguenze per i lavoratori.
L’IMT riceve delega a erogare incentivi per
le aree di crescita, ivi comprese la possibilità di assumere personale, di
intervenire sugli obiettivi del Piano di Vendita, di assegnare premi e
incentivi a chi più contribuisce a far crescere gli affari, e a modificare
rapidamente queste decisioni in caso di mutamenti del mercato (10). Un
tradizionale punto debole nei rapporti con i clienti – l’offerta di beni e
servizi provenienti da Line Of Business differenti, e quindi con
schemi commerciali differenti - dovrebbe venir superato da una nuova struttura,
il Deal Hub, specializzato a integrare e a gestire in modo
coerente queste offerte complesse(11).
Molti dei
preesistenti ruoli di supporto vengono incorporati nei Center of
Excellence (CoEs). IBM ha avviato un
processo di integrazione globale di alcune funzioni chiave, quali la gestione
finanziaria, quella delle risorse umane, le vendite e il marketing. Tali
funzioni dovrebbero trovare ora nei CoEs la loro collocazione ottimale. I Center
of Excellence dovrebbero favorire le economie di scala e l'integrazione e
la ridistribuzione delle competenze orizzontalmente in tutte le Line Of
Business. Questo nuovo
modello organizzativo parrebbe soddisfare almeno in parte alle critiche mosse
nella parte dedicata a IBM Italia in questo documento, e a renderle quindi
superate. Sarebbe bello... ci sono però alcune considerazioni da fare:
NOTE AL TESTO
(1)
Per
i lettori che conoscessero poco la storia di IBM, si rimanda agli studi sui
bilanci e agli altri contributi pubblicati sul sito delle RSU IBM (
www.lomb.cgil.it/pare.htm).
(2)
WordPro,
Lotus 1-2-3 ..., salvo poi a imporre ai propri malcapitati dipendenti di
continuare a usarli, salvo poi a obbligare gli stessi a convertire, in parte
manualmente, i documenti allo standard Microsoft per poterli spedire ai
clienti...
(3)
Introdotta
negli USA in seguito allo scandalo Enron, e obbligatoria anche per le
controllate estere, impone di rilevare e monitorare quasiasi elemento di
rischio finanziario per le imprese, anche implicito o non evidente.
(4)
-
La solita fervida fantasia dei sindacalisti! - penserà qualche lettore.
Evidentemente anche qualche qualcun altro in IBM condivide le nostre fantasie,
se un numero significativo di coloro che sono stati pagati prima delle ferie
estive affinchè dessero le dimissioni, dopo le ferie estive vengono pagati come
consulenti esterni per tappare i buchi lasciati dalla RAZIONALIZZAZIONE
delle risorse …
(5) Come rappresentanze sindacali l’avevamo proposto dieci anni fa, e l’abbiamo anche praticato sul nostro sito (www.lomb.cgil.it/pare.htm).
(6) Per esempio, qualche anno fa IBM Italia è stata costretta ad abbandonare un buon modello econometrico del mercato IT italiano, sviluppato da un gruppo di volonterosi colleghi, e ad adottare quello IBM standard, purtroppo molto peggiore nel fare previsioni attendibili per il nostro Paese, ma dotato dell’indispensabile imprimatur di Armonk.
(7) Dopo tre o quattro anni di produzione e esportazioni a pieno regime e investimenti zero in macchinari.
(8) Attualmente i Sector (Settori produttivi) sono: Communication, Consultant&System Integrators (CSI), Distribution, Financing Services, Industrial, Public, Small&Medium Business.
(9) Disponibile all’indirizzo: http://www.rsuibm.org/20058ar.pdf
(10) Le solite malelingue ci informano che per il momento queste deleghe si sono viste … con il binocolo.
(11) Dal punto di vista organizzativo, i Deal Hub riuniranno in un unico team persone che precedentemente appartenevano all'SPC (Sales Productivity Centres), all'SDPC (Solution Design Productivity Centre) e all'SDC (Solution Design Centre) della IGS e la Bid Support Service Center della BCS.
Colgo l'occasione dell'analisi di Alfio Riboni “Ragioniamo sull’IBM”(9) sulla situazione in IBM dopo i tagli di giugno-luglio per approfondire alcuni temi che riguardano il settore BCS e più in generale la questione IBM azienda di servizi.
Alcune considerazioni numeriche
Al termine del 2002 i dipendenti PWC Consulting erano circa 500 di cui circa 100 dirigenti, i trasferiti (non dirigenti) a IBM Italia a partire da gennaio 2003 erano 341 (nel frattempo qualcuno se ne era già andato).
Prima dell'inizio dell'ultimo piano incentivi alla fuoriuscita, gli exPWC erano circa 300, dopo il piano poco più di 200 (di cui 178 in BCS). L'intera BCS all'inizio del 2003 era costituita da circa 1200 dipendenti (mi risulta che la vecchia struttura IBM BIS avesse circa 700 dipendenti). Nel maggio di quest'anno la BCS contava 657 lavoratori, ora dopo la "cura" sono rimasti 513 (calcolati con ricerche sulle Blue Pages).
L'incidenza degli tagli (o incentivi) sulla BCS è dell'ordine del 21% (se prendiamo in considerazione gli exPWC almeno il 30%), mentre per l'intera IBM è sull'ordine del 13-14%. Ora, spero non si indichi più l’acquisto di PWC (visto la scarsa incidenza numerica) come ragione del fallimento di BCS, argomento utilizzato come scusa per nascondere problemi più gravi e strutturali.
Prossimamente la struttura dovrebbe essere accorpata con l'attuale AMS(a).
Non ho dati economici, ma sembra chiaro che il progetto BCS, come “punta di diamante” dell'offerta IBM nel catalogo dei propri servizi, sia fallito o stia fallendo. Non credo che questo fallimento sia dovuto solamenete alla perdita di controllo da parte della dirigenza IBM del costo del lavoro, come sembra emergere dal documento "ragioniamo sull'IBM".
Le Ragioni di questo fallimento
Di seguito provo ad analizzare le ragioni di questo fallimento.
La “quistione” giovanile
Confrontando un progetto IBM BCS, rispetto a progetti composti da "exPWC" oppure rispetto a progetti delle aziende concorrenti con cui ci misuriamo dai clienti, la prima evidente differenza è l'età anagrafica. IBM BCS ha un'età media decisamente più elevata rispetto ai concorrenti: ciò vuol dire che a parità di lavoro svolto, il consulente o programmatore IBM BCS costa sicuramente di più, è meno elastico nei rapidi cambiamenti del progetto. Il consulente/tecnico "old blue" è molto preparato dal punto di vista tecnico ma si perde nelle questioni più banali riguardo l’organizzazione, la relazione con il cliente, la pianificazione dei progetti. Ci sono colleghi con banda 7-8 o addirittura 9 (b) che svolgono una tipologia di lavoro che nelle aziende concorrenti viene svolta da neodiplomati o poco più.
Posizionamento di BCS
La tipologia di progetti, che BCS riesce a procurasi sono via via di più basso livello (nella catena produttiva) e di minor valor aggiunto. Non penso che IBM BCS possa fare i progetti di "consulenza strategica" (questo non lo faceva nemmeno PWC tranne che in qualche rara occasione), ma almeno ottenere progetti di disegno e sviluppo di nuove applicazioni/integrazioni: invece accade che si perdano progetti di questo tipo e si ottengono progetti di Test o Operation & Mantainance.
Anche questi progetti in generale possono essere remunerativi, ma non con bande 7-8! I concorrenti in questo tipo di progetti utilizzano lavoratori con i più svariati contratti: IBM non può fare concorrenza al ribasso su questo terreno.
La struttura e il costo di un consulente
La struttura della BCS e di IBM in generale è troppo pesante per una società di servizi, il rapporto tra lavoratori che “fatturano” e lavoratori che “non fatturano” è decisamente basso: quanti sono i lavoratori che svolgono attività “interne”? Da alcune interrogazioni alle blue pages, per la sola BCS il numero dei dipendenti che appartengono a dipartimenti “operativi” (BC7* e BC9*) sono 310 su 513. Esistono troppi livelli gerarchici, troppi lavori "parassitari" (con tutto il rispetto per i colleghi): i dirigenti che fanno solo le funzioni di "capo" dovrebbero fare attività di "capo" (gestione dei riporti) per 1-2 giorni al mese, per il resto del tempo dovrebbero essere impegnati nei progetti dai clienti come gli altri (poi succede che tutti i dirigenti exPWC che bene o male erano su Progetti vengano allontanati e rimangano i burocrati di palazzo). Un altro esempio è la figura del RDM(c): dovrebbe pianificare le risorse, capire quali siano le figure mancanti, preparare i team di progetto ecc., ma in concreto il suo lavoro è puramente burocratico limitandosi a tempestare di mail per compilare Hours Plan, il Claim, il PD tool, IDP (d) che mai nessuno andrà a leggere.
Questa sovrastruttura determina un guadagno sulla singola giornata/uomo troppo basso: nominalmente un consulente di banda 6-7 viene venduto a circa X euro al giorno (in linea teorica, perchè poi la maggior parte dei progetti viene venduta "chiavi in mano" e non "time&material" (e)), mentre IBM "fa pagare" il consulente al capo progetto Y euro, e normalmente Y non è molto minote di X. Il margine quindi è veramente ristretto e pochi errori conducono ad avere un progetto in perdita economica: in alcuni casi queste perdite vengono poi riassorbite dalla vendita di hardware e licenze software. In linea di principio questi Y euro sono (o dovrebbero essere) il costo complessivo dell'azienda ripartito sul numero di lavoratori effettivamente "operativi", ovvero che svolgono un lavoro direttamente fatturabile. Ovviamente questo prezzo per l'azienda non è sindacabile e viene utilizzato per far pressione sui capi progetto per ottenere il maggior guadagno: ma qual è il prezzo corretto? Se effettivamente quel prezzo fosse reale (e penso che si avvicini) è evidente che i costi della struttura IBM sono troppo elevati: ogni consulente/tecnico che lavora dal cliente ha sulle spalle un altro lavoratore.
Conclusione
Rimanendo nella logica di mercato della competitività, un ridimensionamento del personale probabilmente era necessario purchè fatto con un certo criterio e non tagliando purchè sia. In questo modo, se non ci sarà una ripresa complessiva dell’economia, tra un paio d'anni ci troveremo di fronte alla stessa situazione. Riprendendo una riuscita metafora che ho letto sul Manifesto (8 maggio 2005), l'IBM sembra un pachiderma che vuol insegnare agli altri ad essere leggeri ed efficienti.
NOTE ALL’APPENDICE
a cura di G.T.
(a) L’AMS è una struttura (mai diventata una vera e propria Line Of Business) che effettua servizi di intervento sulle applicazioni esistenti presso i clienti, al fine di tenerle aggiornate o di migrarle verso soluzioni più moderne.
(b) Le “bande” di cui si parla qui è una classificazione dei dipendenti IBM che vengono inseriti nei progetti per i clienti, in base al livello professionale e quindi al costo di mercato. Notiamo di passaggio che si parla proprio di quel tipo di classificazione dei livelli professionali che le declaratorie contenute nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro dei Metalmeccanici non riescono più a rappresentare.
(c) L’RDM è il responsabile del reperimento delle risorse umane necessarie per effettuare un progetto.
(d) Sono tutti sistemi di pianificazione delle risorse e di reporting, ovviamente disomogenei e non integrati fra loro.
(e) “Chiavi in mano” significa che il progetto ha per il cliente un prezzo complessivo non dettagliato nelle sue componenti; “time&material” significa che il cliente paga dettagliatamente le ore impiegate e le compenenti tecnologiche acquisite. In caso di errore di previsione dei costi, nel primo casi il rischio prevalente è a carico di IBM, nel secondo caso è a carico del cliente.