Da: Forum; Politica aziendale e risultati economici;
Commento a "Un poco di storia di IBM"
Sono molto contento dell'attuale discussione perche' costituisce una
buona occasione per chiarire alcuni malintesi e forse persino eventual-
mente concludere qualcosa di buono.
In questo breve intervento faccio riferimento anche al documento
"storico" di Alfio.
1) Sono assolutamente d'accordo, e non tatticamente, che CDF
e azienda devono ognuno giocare il proprio ruolo senza ambiguita'
(la cogestione alla tedesca, che comunque va studiata, e' invece un
monumento alla confusione dei ruoli).
2) Il CDF a mio parere deve rispondere formalmente e sostanzialmente
ai lavoratori, il quali devono poter esprimere democraticamente
le proprie rappresentanze e le proprie opinioni.
3) Ma detto questo, in pratica e' detto assai poco.
In questi mesi, sto cercando di portare il mio contributo al "come"
fare cio'; poiche' credo che quando si lavora bene, si dovrebbe
vederne i frutti, sono partito dal presupposto che i militanti
sindacali commettano sistematicamente gravi [sbagli] di intervento
(a causa della propria formazione culturale) e che questi errori
vanifichino anche il molto di buono che poi viene comunque fatto,
e con gran fatica personale.
Ho quindi cercato di individuare questi errori.
4) Un primo errore mi sembra quello di privilegiare l'aspetto conflit-
tuale con l'azienda. Attenzione: ho detto "privilegiare", e potrei
aggiungere "in modo da risultare quasi ossessivo alle persone esterne
alla cultura sindacale".
5) Ho poco interesse a polemizzare con chi nega che ci siano ragioni
per questo conflitto: costoro mi sembrano o molto stupidi o molto
in malafede, e spesso entrambe le cose.
Per la maggior parte dei colleghi, pero', questo conflitto e' un
dato empirico, che viene rilevato come tale volta per volta
(e, di questi tempi, molto e sempre piu' spesso).
Solo chi e' di formazione anche vagamente marxista ne trae da cio',
pero', una regola generale, data per dimostrata una volta per
tutte: per gli altri, si presenta ogni volta come un disinganno
doloroso, e pertanto, in termini psicologici, anche suscettibile di
"rimozione".
Qui si origina una prima frattura nella comunicazione, perche' i
militanti trattano con sufficienza questi sentimenti (non aiutando
il processo di crescita degli individui) e anzi tendono a
autogratificarsi con il solito "avevamo ragione noi, noi l'avevamo
detto", che oltre ad essere paternalistico e antipatico, e' pure
falso.
6) Perche' falso? Andiamo a rileggere il documento Riboni, nelle pagine
che descrivono i tempi d'oro dell'IBM: empiricamente parlando, era
poi cosi' sbagliato o pericoloso (in termini materialistici, non
per conquistarsi un posto in paradiso) fidarsi dell'azienda?
Chi aveva - materialisticamente - "ragione" allora, chi faceva
carriera o chi lanciava anatemi?
7) Ma questo errore e' anche peggiore sulla dimensione sincronica.
Dedicare tutta l'attenzione al conflitto vuol dire separarsi
culturalmente dall'esperienza lavorativa della maggioranza dei
colleghi che comunque esperimentano quotidianamente un mix di
vantaggi e svantaggi, di gratificazioni e di frustrazioni nel
lavorare in IBM.
E d'altra parte, guardando le cose dal punto di vista della tecnica
comunicativa, non e' possibile dare una descrizione interessante
e credibile delle cose che danneggiano i lavoratori senza citare
quelle che li favoriscono, delle cose che peggiorano trascurando
quelle che migliorano.
8) Queste affermazioni possono suonare un po' paradossali oggi,
perche' l'attacco alle condizioni dei lavoratori c'e', e ben
evidente; eppure persino oggi mi sembra importante "ritararsi"
sul comune sentire dei colleghi per ritrovare i modi e i toni per
comunicare efficacemente con coloro che alla fin fine decidono
della vittoria o della sconfitta delle iniziative del CDF.
Anche perche' siamo effettivamente di fronte al primo varco
praticabile per costruire una presenza sindacale piu' radicata
e piu' sentita come rappresentanza effettiva da parte dei
lavoratori; un'occasione che non si deve perdere assolutamente.
9) Ma ci sono altre due considerazioni, anche piu' importanti di
quella gia' esposta, a cui corrispondono altri due "errori tipici".
La prima potremmo definirla come una critica postmoderna alle
teorie del conflitto: quando si parla di "conflitto di interessi"
si da' praticamente sempre per sottinteso che si sia di fronte
a un gioco a informazione completa (ad una partita a scacchi),
almeno per uno dei due avversari. Cioe' che ciascuno sappia
definire abbastanza razionalmente "i propri interessi" e che
da cio' deduca obiettivi parziali, ecc; da cui decisioni
egualmente razionali di accordo o di conflitto fra le parti.
Penso che cio', pur essendo sempre grosso modo vero, lo sia sempre
piu' approssimativamente; cioe', che in tutte le culture si noti
una difficolta' sia a stimare gli "interessi", sia a perseguirli in
modo razionale e sistematico.
Proprio negli ultimi anni e mesi, siamo stati tutti
testimoni delle piu' strane iniziative, di questa come di altre
aziende, che pur intraprese perseguendo "in buona fede" la
massimizzazione degli utili, possono sortire in realta' i risultati
piu' inattesi.
A me sembra di riscontrare una domanda di "comprensione" almeno
di qualche aspetto della realta', prima ancora che di "critica"
di una realta' ben conosciuta da tutti (come invece avveniva nella
precedente fase industriale).
Ma, quel che piu' importa, significa che siamo di fronte a una
sempre piu' forte "indeterminazione intrinseca" nelle strategie
aziendali, a cui corrisponde inevitabilmente una ben rilevabile
caduta dell'egemonia culturale sia all'interno che all'esterno
dell'impresa. E in questo varco e' d'uopo infilarsi, perche' non e'
affatto una trappola (la trappola per topi e' un esempio di gioco
a informazione completa per un partecipante, e incompleta per
l'altro). D'altra parte siamo ben consapevoli che questa
deriva indeterministica colpisce anche il movimento dei lavoratori
(non credo che siano necessari esempi).
Infilarsi in questo varco non vuol dire quindi sperare di ricostruire
una semplicita' del mondo momentaneamente smarrita, ma rendersi
conto che questa turbolenza non e' che la manifestazione empirica
del lento affiorare di nuove "soggettivita complesse" (che non
vuol dire necessariamente che siano brava gente).
L'esempio migliore lo si puo' trarre ancora dal documento di Alfio,
quando descrive il ruolo degli hacker nella nascita della nuova
informatica decentrata; un secondo, a cui assistiamo, l'esplosione
caotica di soggettivita' e movimenti nell'ex campo socialista,
prima cosi' silenzioso, ordinato e prevedibile (in termini economici
significa la nascita sia di nuovi produttori che di nuovi mercati,
con le inevitabili turbolenze).
10) Questo secondo errore consiste quindi nel cercare di mostrarsi
sicuri ed esaustivi di fronte a platee sempre piu' scettiche;
correggere queste errore, non significa aumentere il tasso di
"forse", "parrebbe", "a mio parere" ecc. nei discorsi e nei
documenti, ma dimostrare che si e' in grado di padroneggiare
e di trarre vantaggio dalla nuova situazione, dichiarando
con franchezza cio' di cui si e' convinti e cio' che invece si
ignora, esponendo i dubbi e i cambiamenti di opinione, ma
soprattutto invitando i colleghi ad esprimere non tanto rabbie
ed esigenze, quanto propri punti di vista piu' generali,
ipotesi, proposte piccole e grandi ecc. A me sembra che in
passato si e' soprattutto dato ascolto a cio' che collimava con
la visione del mondo dei militanti; su tutto il resto, pialla.
Un atteggiamento che privilegiasse innanzitutto la capacita' dei
lavoratori di riflettere sulla propria attivita' professionale,
e sul senso delle contraddizioni gestionali che si vivono tutti
i giorni, avrebbe ha di per se' una sua forza egemonica, perche'
da una parte e' evidente che l'azienda fa fatica a capire le logiche
di tutte le sue varie parti (e infatti fugge verso l'impresa rete
anche per questo) dall'altra i dipendenti sentono che l'azienda e'
un interlocutore sempre meno disponibile e credibile.
(In altri termini, l'azienda commette lo stesso errore del cdf,
mostrandosi certa e sicura di scelte e strategie dagli esiti in
realta' imprevedibili; cio' ci puo' permettere di essere piu'
seri e convincenti della nostra controparte.)
11) Ma per far cio' bisogna accettare l'idea che i lavoratori trovino
piu' soddisfazione nel lavorare bene che nel lavorare male.
Messa in questi termini sembra la scoperta dell'acqua calda; non
bisogna pero' dimenticare che il passato l'ala sinistra del
CDF ha spesso assunto un atteggiamento sarcastico verso
i lavoratori piu' coinvolti nella loro professione, e questo
stereotipo e' rimasto nella testa della gente. Altre volte, nel
cercare di mettere il sale sulla coda della professionalita',
si e' assunto l'atteggiamento opposto e simmetrico di santificare
ogni affermazione dei dipendenti sulla propria attivita', ignorando
che spesso l'azienda ha ragione nel criticare il dipendente quando
persegue fini suoi propri (magari vagamente ossessivi) perdendo di
vista il quadro generale delle esigenze aziendali. In questi casi,
l'azienda rappresenta un'istanza di crescita e di maturazione del
dipendente, anche se costui soggettivamente puo' sentire l'intervento
come invadente e frustrante.
12) L'ultimo errore consiste nel mantenere un atteggiamento ambiguo verso
il capitalismo e la ricerca del profitto.
Alla stragrande maggioranza delle persone, il sistema capitalistico
appare come l'unico sistema economico valido, non perche' non abbia
limiti e controindicazioni, ma perche' tutti gli altri sono crollati
(e non erano molto attraenti anche quando stavano in piedi).
Cio' significa che la ricerca del profitto economico e' considerato
uno scopo positivo da perseguire attivamente. Il fatto stesso che
il CDF si dimostri indifferente o ostile a questo valore, da'
un'aria di fondamentale "estraneita'" al suo linguaggio e alle sue
scelte. Insomma, visto che non ci sono alternative, certe battute
e certe contorsioni linguistiche diventano incomprensibili.
13) Cio' non significa che siano tutti reaganiani e iperliberisti;
significa invece che l'atteggiamento prevalente (nella societa' in generale)
e' quello di temperare la ricerca del massimo profitto con vincoli e regole
del gioco ad hoc (ad esempio, le norme di sicurezza o di rispetto
dell'ambiente); ci si divide sull'estensione di queste norme, e
sulla gravita' della loro violazione, non sul fatto che, soddisfatta
la legge, il massimo profitto debba essere perseguito. E cio' si
lega con quanto dicevo prima, sia sulla indeterminazione delle
condizioni per raggiungere questo risultato, sia su un aspetto del
"lavorare bene" (il successo economico).
14) Mentre quindi molti lavoratori sono contenti che il sindacato cerchi
di introdurre delle "regole del gioco" a loro vantaggio, rimangono
perplessi quando sentono certe affermazioni contro il profitto "in
quanto tale" (ultimamente questi attacchi si sono rifugiati tra le
righe, ma si sentono ancora). Un esempio banale: e' tuttora inconce-
pibile che il CDF si dichiari soddisfatto dal buon andamento
di qualche aspetto dell'attivita' aziendale.
15) Personalmente non condivido il pubblico apprezzamento per il sistema
capitalistico, e sono molto interessato a tutto cio' che possa suggerire
una diversa razionalita' del calcolo economico (dalla cultura ecologica,
alla ripresa critica di certi pezzi dell'analisi marxiana, all'esperienza
di civilta' extraeuropee). Pero' trovo molto irritanti certe nostalgie
irrisolte non tanto verso il "socialismo reale", ma verso qualche
indefinita "giustizia sociale assoluta" che ancora serpeggiano nella
sinistra e che, non ben metabolizzate, filtrano ancora nel linguaggio
sindacale. A me interessa innanzitutto che ci si faccia comprendere
chiaramente con i concetti economici e ideologici correnti, perche'
sono questi che per il momento garantiscono la buona comunicazione
sociale. Accanto a cio', si dica chiaramente quando questi criteri e
valori mostrano i loro limiti, e ci si assuma la piena responsabilita'
anche di posizioni molto radicali. Quello che non si deve piu' fare,
e' cercare di contrabbandare (magari inconsapevolmente, piu' per
abitudine che per altro) nelle pieghe delle argomentazioni concetti e
modi di ragionare che la maggior parte delle persone rifiuta o non
capisce piu'.
(Un esempio e' costituito dal gia' citato documento di Alfio;
esempio assolutamente innocuo, per la verita', perche' in un
documento personale e interno uno ha ben il diritto di usare parole
e concetti come meglio crede, ci mancherebbe altro.
Il problema nasce quando il CDF, che dovrebbe rappresentare anche
"la voce" della maggioranza dei lavoratori, usa piu' o meno
consapevolmente il gergo e fa riferimento al mondo ideale e mitico
[in senso antropologico] di una piccolissima minoranza di essi.
E' come se il CDF facesse sempre riferimento alla fraternita'
cristiana, alla purezza ebraica, all'armonia navajo o alla
rinuncia alla concupiscenza buddista.)
16) D'altra parte, nell'ultimo decennio si e' aperto un vastissimo
orizzonte di "critica pratica" al capitalismo, o quantomeno al
capitalismo reale che conosciamo. Dalla coscienza ecologica nelle
sue infinite ramificazioni, alla nuova consapevolezza
dell'importanza di proteggere
e seguire da vicino di primi anni di vita dei bambini (da cui la
richiesta di regole ad hoc per i genitori), alla cultura della
qualita' e della sicurezza, alle associazioni dei consumatori,
persino l'avvento di alcuni concetti microeconomici giapponesi
(che sembrano funzionare piu' in una cultura ancora semifeudale che
nell'occidentale approccio del "tutti contro tutti" e "dopo di me,
il diluvio"; ci sara' un motivo), tutto cio' suggerisce la possibilta'
di AGGIUNGERE alle tematiche sindacali di base una difesa della
qualita' della produzione e del prodotto di tipo nuovo.
17) Un intervento quindi, che in qualche modo anticipa e rinforza le
pressioni del mercato delle associazioni dei consumatori; un
controllo non esterno ma nel cuore stesso del momento produttivo.
Perche' i lavoratori avrebbero interesse nel fare questo?
Per i seguenti motivi, che elenco alla rinfusa:
a) perche' lavorare "sporco e veloce" e' in genere piu' frustrante
che lavorare puntando sulla qualita'
b) perche' significa rafforzare il ruolo della professionalita'
reale e dello sviluppo culturale
c) perche' un mercato basato sula qualita' e' in genere piu' stabile
di uno caratterizzato dalla guerra di prezzi
d) perche' permette di discutere l'organizzazione del lavoro
e) perche' permette di discutere criteri e percorsi di carriera
f) perche' aumenta il prestigio verso la societa' circostante
g) perche' da' la sensazione di fare un lavoro socialmente piu' utile
h) perche' rafforza i legami con il mondo della ricerca scientifica
i) perche' e' una delle precondizioni per un progetto di sviluppo
sostenibile
j) perche' forse anticipa il mercato del futuro, e quindi garantisce
meglio la reddittivita' dell'azienda, e quindi il proprio posto
di lavoro
k) perche' puo' influenzare nello stesso senso le aziende concorrenti,
migliorado le condizioni di lavoro e l'offerta di tutto il
settore industriale coinvolto
l) perche' migliora la possibilta' di trovare un altro impiego
in un'altra azienda
m) perche' mette di fronte la cultura del sindacato e della sinistra
a una dimensione della realta' poco frequentata
n) perche' permetterebbe di tentare di stabilire rapporti inediti fra
organizzazioni dei produttori (lavoratori) e consumatori (talvolta
lavoratori anch'essi)
o) perche' mette in crisi l'approccio di molti dirigenti, basato sullo
"spremi e getta".
18) D'altra parte, questa mia proposta fa ritornare al nodo del pro-
fitto; perche' e' difficile dire se questa eventuale strategia
aumenti o diminusca i profitti aziendali; forse li potrebbe dimi-
nuire a breve e garantire meglio a medio termine, ma chi puo'
dirlo? Quel che a me preme e' contestare la superstizione che a
volta affiora, che se i lavoratori fanno qualcosa di positivo per
i profitti aziendali, peccano di ingenuita'. A mio parere la realta'
e' piu' complessa, e il punto di partenza deve essere sempre
quello dello studio delle condizioni materiali del lavoro. E
delle riflessioni e critiche su di esse che i lavoratori fanno
spontaneamente.
19) Sommario conclusivo (oppure: conclusioni sommarie).
I lettori sopravvissuti avranno notato che la maggior parte della
mia critica al comportamento sindacale (del nostro CdF, in particolare)
e' quasi piu' "linguistica" che di merito.
Cio' non deve stupire, oggi il problema della comunicazione e della
comprensione reciproca e' uno dei colli di bottiglia fondamentali di
tutte le organizzazioni. Considerare la comunicazione solo come
registrazione notarile di cio' che si fa, o come "agitazione e
propaganda" significa bruciare le condizioni per una partecipazione
reale di molti lavoratori alle attivita' del cdf.
Nel merito di cio' che si fa, non ho mai messo in discussione
quella che chiamo l'"attivita' sindacale di base", la difesa degli
interessi quotidiani e concreti dei lavoratori. Questo perche'
sono convinto sia della riconoscenza che dobbiamo a chi si e'
assunto questo compito finora, sia perche' se si incrina questa
base tutti gli altri discorsi crollano, e diventano davvero
connivenza di chiacchere tra cdf e azienda alle spalle dei
lavoratori.
D'altra parte ritengo che la stessa attivita' sindacale di base
deve essere portata a conoscenza e discussione dei colleghi in
modo sereno e non "propagandistico", cercando di essere chiari
e magari ironici se necessario, ma evitando i luoghi comuni
della paranoia e del catastrofismo, ormai noiosamente datati.
Questo indispensabile lavoro di base potrebbe trarre notevole
beneficio anche dal coinvolgimento del maggior
numero possibile di colleghi, delle piu' varie tendenze culturali,
sia nella critica dell'attuale organizzazione del lavoro che
nella proposta di approcci alternativi, anche quando cio'
contribuisca a una maggiore efficienza e efficacia della strut-
tura aziendale. Invece di temere a priori ogni potenziale favore
all'azienda bisogna discutere in modo il piu' possibile allargato
come affrontare eventuali conflitti tra interessi aziendali e
interessi dei lavoratori in ogni caso in cui concretamente si
manifestassero (con lotte, con accordi ad hoc, ecc.).
A questo fine, il CDF deve diventare anche un punto di riferimento
costante, credibile e stimolante nella discussione sull'organiz-
zazione del lavoro, a partire dal modo concreto di lavorare qui
e ora.
Cio' implicherebbe e permetterebbe un coinvolgimento attivo di
un numero molto piu' grande di lavoratori.
Ciao.
G.T. - giugno 1992