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Sul referendum abrogativo dell'art. 18 - Legge 300/70


Da: Forum

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Il contributo di Franco Scarpelli

(associato di diritto del lavoro, Università dell'Insubria - Como)

Gli argomenti in discussione sono tantissimi; permetteteci dunque qualche considerazione schematica:

  1. Non è vero che l'Italia è l'unico paese in Europa ad avere una tutela' forte' contro i licenziamenti (e poi, la comparazione va fatta considerando l'insieme del sistema di regolazione del lavoro, ad esempio anche l'efficienza dei sistemi di vigilanza sull'osservanza delle regole in materia di lavoro e sicurezza, che come dirò tra breve è tema strettamente connesso…); ma soprattutto, questo non è affatto un argomento, poiché se anche fosse vero (e, ripeto, non è vero) che la reintegrazione è prevista solo nel nostro ordinamento, bisognerebbe ancora dimostrare che si tratta di un elemento negativo e non di progresso …

  2. Vogliamo considerare in buona fede chi, tra i promotori, afferma che il referendum mira a sostenere l'occupazione: tuttavia, non c'è una sola ricerca che dimostri che una maggiore libertà di licenziamento ("flessibilità in uscita") determini un aumento dell'occupazione; le politiche generalmente indicate a sostegno dell'occupazione, anche nei documenti comunitari, sono ben altre, e altra semmai è la flessibilità (nelle forme di impiego, e non sul recesso) che potrebbe essere sperimentata, ed è ormai massicciamente sperimentata in Italia; in ogni caso, nessuno strumento è buono in sé, dovendosene valutare i benefici in rapporto ai costi (che sono anche costi sociali, culturali, ecc.): la 'libertà' di licenziamento, come cercherò di accennare, ha costi sociali molto elevati, e costi in termini di libertà individuale

  3. Il referendum mira - nelle intenzioni dichiarate - ad ampliare le possibilità di licenziamento da parte dei datori di lavoro; indipendentemente dal giudizio su tale obiettivo, va sottolineato che questo referendum NON TOCCA IN ALCUN MODO LE REGOLE SUI LICENZIAMENTI, MA SOLO L'ASPETTO DELLA SANZIONE nel nostro ordinamento il datore di lavoro PUÒ LICENZIARE nei casi tipici previsti dalla legge (motivi organizzativi, colpa del lavoratore ecc.), e infatti molti licenziamenti avvengono ogni giorno e molti licenziamenti non vengono impugnati (o l'eventuale impugnazione viene rigettata dai giudici); la reintegrazione riguarda invece LA SANZIONE DEL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO (cioè adottato in casi diversi da quelli previsti dalla legge, ovvero senza il rispetto delle forme ecc.) ecco dunque la contraddizione: il referendum non dice "si può licenziare in un più ampio numero di casi", ma rende meno grave la sanzione per un licenziamento CHE CONTINUA AD ESSERE CONSIDERATO ILLEGITTIMO sarebbe come se si ritenesse che non ha più senso vietare il reato di corruzione e però, invece di abolire la norma penale incriminatrice, se ne prevedesse la punizione con un buffetto sulla guancia è accettabile ciò per un giurista (e, in generale, per chi ha rispetto del diritto)?

  4. Ancora sul carattere della sanzione: è principio generale del nostro ordinamento che, nel caso di lesione di un diritto (nel nostro caso: il diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro in assenza di cause legittime di licenziamento) sia apprestata la tutela più effettiva; il diritto civile - ogni volta che ciò sia possibile - mira alla tutela ripristinatoria; la sanzione risarcitoria per equivalente è una sconfitta del diritto, accettabile solo quando non sia possibile restituire al titolare proprio il diritto leso i referendari - che pure si richiamano ad una tradizione di tutela dei diritti fondamentali - si fanno dunque sostenitori di una proposta di "monetizzazione" di un diritto fondamentale, di rinuncia a una tutela piena là dove ciò è possibile

  5. Nel merito una sola osservazione, a nostro avviso fondamentale: il vero valore della reintegrazione non risiede nel "dopo" del licenziamento, ma nel suo carattere preventivo, di tutela della libertà della persona in un rapporto che, nella maggior parte dei casi, vede uno squilibrio di forza contrattuale tra le parti (non c'è bisogno in proposito di richiamare le ferriere e il capitalista col cilindro: è semplicemente la logica dell'impresa - anche nella "new economy" - e non c'è nulla di male; è semplicemente un fatto) il valore più importante della "tutela reale" contro i licenziamenti non sta dunque nel sanzionare il licenziamento illegittimo con la reintegrazione (dopo il licenziamento), quanto nel prevenirlo, nel dare più forza alle regole sostanziali che impongono al datore di lavoro di licenziare il lavoratore solo quando sussistano seri motivi organizzativi o disciplinari che non consentono la prosecuzione del rapporto. E' sul "prima" del licenziamento, perciò, che si apprezza maggiormente la differenza tra la reintegrazione e un regime meramente risarcitorio (il quale ovviamente, a sua volta, darà una tutela più o meno consistente a seconda della quantificazione del risarcimento: si tenga presente, allora, che in caso di abrogazione dell'art. 18 la sanzione economica applicabile - quella oggi prevista per le piccole imprese, che secondo la Corte costituzionale si estenderà a tutti i rapporti di lavoro - sarebbe debolissima). E dunque, ciò che è veramente tutelato dalla disciplina dei licenziamenti non è tanto la stabilità del rapporto di lavoro (che invece può essere interrotto, ma solo per ragioni ammesse dalla legge) quanto la libertà del lavoratore: la libertà contrattuale, di giudizio, di dissenso dal datore di lavoro, e la libertà sindacale. Si pensi allora, ad esempio, quanta importanza assuma la tutela reale contro il licenziamento illegittimo in materia di sicurezza sul lavoro (ricordando, per favore, che nel nostro paese - ecco un bel confronto da fare con Europa - muoiono sul lavoro più di tre persone al giorno…): in un contesto reale che vede già un così basso livello di rispetto delle norme sulla sicurezza del lavoro quali possibilità di autotutela avrà un lavoratore rispetto alle proprie condizioni di sicurezza, se sa che a qualsiasi critica sgradita potrà seguire un facile licenziamento? Come potrà rifiutarsi di lavorare su una macchina o su un ponteggio privi dei sistemi di sicurezza? E ancora, quale reale libertà avrà di costituire una propria rappresentanza sindacale, di scioperare, di svolgere attività a tutela dei propri diritti? E infatti le statistiche ci dicono che il maggior numero di infortuni si verifica nelle piccole imprese, dove è minore la tutela contro i licenziamenti illegittimi e dove più difficilmente è presente la tutela sindacale

  6. Un'ultima questione: il regime dell'art. 18 si applica solo alle imprese di una certa dimensione e al lavoro pubblico, mentre ne sono esclusi i milioni di lavoratori che vivono nelle piccole imprese; si tratta di un problema serio, ma a mio parere è veramente scorretto parlare di privilegio: un diritto è un diritto, non è un privilegio, ed è veramente impressionante che si possa sostenere la necessità di riequilibrare una difformità di diritti … togliendoli a chi li ha invece di darli a chi non li ha! Tuttavia si dirà: che interesse hanno i lavoratori delle piccole imprese a votare NO? A mio avviso ce l'hanno, eccome. L'esistenza e l'applicazione anche ai loro rapporti di lavoro di condizioni contrattuali dignitose dipende, nella gran parte dei casi, dalla stipulazione dei contratti collettivi (e segnatamente dei contratti nazionali) e dunque dall'esistenza di un robusto e rappresentativo movimento sindacale, in grado di contrattare in nome di tutti i lavoratori. Tra le condizioni perché ciò avvenga vi è anche, con tutta evidenza, una efficace disciplina limitativa dei recessi (che, si ripete, non impedisce il licenziamento, ma mira a verificare che ciò avvenga nei casi previsti dal legislatore), perché solo grazie ad essa i lavoratori, almeno nelle medie e grandi imprese, possono dirsi veramente liberi, se ritengono, di svolgere attività sindacale e di autotutela. In definitiva: l'esistenza di maggiori garanzie di libertà per i dipendenti delle imprese medio-grandi è in sé una garanzia di tutela per quelli delle imprese minori (il che non toglie che dovremmo porci il problema di aumentare anche per questi ultimi le tutele dirette, problema che tuttavia non è oggetto dell'odierno referendum). Certo qualcuno (e, temo, molti dei referendari) potrà pensare che la fine del sindacato sia un fatto positivo: ma qui ci fermiamo, perché ciò attiene ai valori politici e culturali di fondo di una società democratica. Su questa questione, una volta tanto, la differenza tra pensiero 'progressista' e pensiero 'reazionario' è chiara e profonda.