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COMITATO PER LE LIBERTÀ E I DIRITTI SOCIALI

 

 

 

                                                                                     Milano, 4 febbraio 2002

 

 

Sabato 16 febbraio 2002 alle ore 10 alla Camera del Lavoro di Milano il Comitato per le libertà e i diritti sociali organizza un incontro pubblico nel quale presenta una proposta per una campagna sui diritti del lavoro fondata sul principio della universalità dei diritti e perciò della loro estensione. Questo a noi pare nella sostanza l’oggetto dello scontro in atto tra governo e sindacati, un tema che riguarda complessivamente la nostra società e il futuro delle nuove generazioni.

Le ragioni e gli strumenti di questa proposta sono sinteticamente illustrati nei due testi allegati, uno a cura del Comitato, l’altro a cura del gruppo di giuristi con i quali il Comitato nel gennaio 2000 presentò alla Corte Costituzionale  una memoria contro i referendum “sociali” dei radicali.

Nell’invitare a questo incontro le forze politiche e sociali vogliamo avviare un confronto e un lavoro comune che coinvolga tutti i soggetti interessati a una battaglia di civiltà e di giustizia.

Con i migliori saluti

 

 

                                                        Comitato per le libertà e i diritti sociali

 

 

 

 

 

 

 

LA GIUSTA CAUSA: MAI PIÙ LAVORI SENZA DIRITTI

 

Alla fine di agosto del 1999 costituimmo il Comitato per le libertà e i diritti sociali per rispondere alla campagna sui referendum cosiddetti sociali dei radicali che spacciava per liberali e libertari quesiti che intaccavano la dignità, prima ancora che i diritti, delle persone che svolgono un lavoro dipendente e la nostra era una indignazione anche culturale oltre che politica.

Il Comitato raccolse adesioni non solo nel mondo del lavoro, ma in ampi strati della società: avvocati, docenti, giuristi oltre che parlamentari e sindacalisti e questo ci consentì di svolgere un compito utile con un risultato assai rilevante: la presentazione di una memoria alla Corte Costituzionale, accolta per la prima volta nel dibattimento sulla legittimità costituzionale dei quesiti referendari e che contribuì a cassare ben nove  degli undici quesiti “sociali”.

Il comitato sostenne la necessità di votare NO nel voto del 20 maggio del 2000 sul referendum per l’abrogazione dell’art.18 S.d.L, l’unico NO che prevalse tra i quesiti ammessi, segno che il senso comune, l’opinione diffusa, a maggio 2000 non erano ancora pronti a superare l’ultimo ostacolo al totale dispiegamento dell’arbitrio nei luoghi di lavoro.

Oggi, quindi, possiamo partire da quel lavoro e da quel dato per costruire una proposta che nasce anch’essa da una reazione alla debolezza con la quale si risponde, nella società e anche nella sinistra, al più radicale degli attacchi al sistema di regole e diritti costruiti in un secolo di lotte sociali, politiche e giuridiche che riguardano il lavoro, attacco condensato nel “libro bianco” del ministro Maroni e soprattutto nella legge delega sul mercato del lavoro, di cui la sospensione dell’articolo 18 SdL è solo la punta dell’iceberg, attacco che stravolge l’intero diritto del lavoro - dalla tutela si passa alla istituzionalizzazione della precarietà – e propone una vera, profonda rivoluzione del patto sociale su cui si regge la Costituzione dello stato italiano. Una rivoluzione che il governo Berlusconi è ben intenzionato a portare a compimento, forte della sua maggioranza e della debolezza dell’opposizione che, a nostro giudizio, non offre una sponda sufficiente all’impegno e alla lotta del sindacato confederale.

A noi pare che rispondere a questo attacco a tappeto non è possibile limitandosi a un’azione puramente difensiva e di contenimento dell’aggressività di una destra che ha vinto con un programma chiarissimo:

Ÿ         impresa e competitività al governo dell'economia, del lavoro e dello stato sociale;

Ÿ         attacco al modello universale di scuola e sanità;

Ÿ         messa in discussione della mediazione sociale realizzata attraverso il ruolo delle rappresentanze sociali e politiche su cui si fonda la nostra Costituzione.

Certo molte cose sono cambiate da quando lo Statuto dei Lavoratori diventò legge nel maggio del 1970. L’Italia degli anni 70 era quella del protagonismo sindacale sia all’interno delle grandi fabbriche dove nascevano i consigli di fabbrica, sia nella società che evolveva nella cultura e nel costume. A questo processo corrispose la crescita della sinistra politica, culminata nel voto a metà degli anni 70. Oggi, trent’anni dopo, siamo di fronte alla crisi della politica, e quindi della sinistra, che ha radici prima di tutto nella grande difficoltà ad affrontare la questione dei diritti sociali dopo l'enorme rimescolamento di carte di questi anni.

In questi trent’anni sono profondamente cambiati la struttura produttiva, l’organizzazione e il mercato del lavoro:

-     gli addetti nelle medie e grandi imprese erano maggioranza ora il rapporto si è rovesciato a favore delle imprese sotto i 15 dipendenti

-     negli ultimi dieci anni si è rovesciato anche il rapporto tra lavoro a tempo determinato e lavoro a tempo indeterminato;

-     si è ridisegnata la struttura sociale con due grandi fratture che si intersecano tra loro: una tra lavoro  ed esclusione sociale e una tra lavoro regolare e lavoro irregolare.

-     è andato in pezzi il vecchio sistema per cui lo sviluppo dell'industrialismo, attraverso la concentrazione e la massificazione del lavoro, favoriva lo sviluppo della sinistra e la sua organizzazione: il sindacato sul fronte sociale, il partito su quello politico-istituzionale

In un quadro così profondamente mutato e di fronte a un attacco così decisivo la proposta del COMITATO PER LE LIBERTÀ E I DIRITTI SOCIALI è di mettere in campo un’azione altrettanto profonda e incisiva.

L’alternativa è secca: da una parte un mondo del lavoro senza diritti e quindi una società senza democrazia, dall’altra il tema dei diritti del lavoro come fondamento della cittadinanza e dell’inclusione sociale nella struttura democratica ricollocato al centro dello scontro politico.

Intorno a questa scelta netta si può rilanciare l’iniziativa, aggregando segmenti di società, riunificando i pezzi sparsi della sinistra sociale e politica, i nuovi movimenti e chiunque ritenga segno di civiltà e modello di convivenza il riconoscimento di dignità e diritti al lavoro.

La proposta che facciamo è quella di lanciare una grande campagna - estesa, unitaria, duratura e non episodica - su un progetto cardine del principio dell’universalità dei diritti che leghi insieme: le questioni della rappresentanza, come diritto del cittadino lavoratore; l’estensione dell’art.18 come diritto alla dignità della persona; la parità dei diritti e delle tutele sul lavoro a prescindere anche dalla nazionalità del lavoratore.

Occorre una campagna che affronti e ponga, nei luoghi di lavoro e nella società, la questione delle caratteristiche di una società civile nel terzo millennio e su questo sappia mobilitare le coscienze. Una campagna articolata e approfondita in tutto il Paese, che coinvolga i luoghi di lavoro, le donne e gli uomini che lì vi operano, con l’insieme della società della quale quelle donne e quegli uomini vogliono far parte a pieno titolo di cittadinanza.

Come strumento di questa campagna proponiamo un progetto articolato su una combinazione di referendum e di proposte di leggi di iniziativa popolare che ci veda impegnati, per tutto il 2002, con l’obiettivo:  “MAI PIÙ LAVORI SENZA DIRITTI”.

I referendum che proponiamo rendono praticabile: il principio della universalità dei diritti in generale, in particolare il principio di giustizia che non si può essere licenziati senza giusta causa come prevede anche nella Carta europea dei diritti fondamentali e infine il principio secondo cui non si può ricevere un’offesa senza tutela.

In concreto essi riguardano quindi:

Ÿ         l’estensione dell’articolo 18, con l’abolizione della parte che ne limita l’applicazione alle aziende sopra i 15 dipendenti;

Ÿ         l’abrogazione dell’art. 35 legge 300 con conseguente estensione dello statuto a tutti i lavoratori;

Ÿ         l’abolizione del decreto legislativo del settembre 2001, che di fatto vanifica l’efficacia dell’articolo 18 perché generalizza l’abuso dei contratti a termine in contrasto con la direttiva europea che pure dovrebbe ratificare.

Ai referendum, e con essi strettamente intrecciati, si accompagnano le proposte di legge di iniziativa popolare sui diritti e le tutele dei  lavori, sulla rappresentanza e il diritto di voto per quanto riguarda contratti e accordi sindacali: diritti elementari del cittadino lavoratore e completamento della definizione di cittadinanza.

Per questo progetto a noi riserviamo il compito di lanciare la proposta: le forze del Comitato per le libertà e i diritti sociali non sono straordinarie, ma nella nostra scelta di lanciare questa proposta, ci ha confortato l’esperienza passata di lavoro insieme a soggetti tra loro diversi intorno all’obiettivo chiaro di respingere la barbarie di una società concepita come una giungla in cui prevale il diritto del più forte. E ci spinge la convinzione che, se non si tira il sasso, l’acqua non si increspa e oggi è necessario sollevare una tempesta sulla palude che ci sta inghiottendo.

A questo progetto noi vogliamo lavorare insieme con tutti coloro che ne condividono l’ispirazione e rifiutano la ideologia liberista e la pratica dell’arbitrio sociale. Siamo convinti che intorno a esso, senza logiche di primazia o di schieramento, si possa costruire un fronte sociale e politico molto ampio che: restituisca alla sinistra le ragioni per un’azione unitaria, in una prospettiva di ricomposizione e di crescita intorno a un’idea di società solidale; offra anche ai nuovi movimenti, come i molti Forum sociali che stanno crescendo nel Paese e ai giovani che vi aderiscono con passione, l’occasione di una partecipazione e di una mobilitazione  perché i diritti non abbiano confini, perché il lavoro non sia una merce, perché la dignità non abbia un prezzo.

 

Milano, gennaio 2002

“Ci sono dei diritti fondamentali nel mercato del lavoro

 che devono  riguardare il lavoratore non in quanto parte di un qualsiasi tipo di rapporto contrattuale, ma in quanto persona che sceglie il lavoro

come proprio programma di vita, che si aspetta dal lavoro l’identità, il reddito, la sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua vita e della sua personalità”

                                                                                              Massimo D’Antona

 

 

Unificazione del mondo del lavoro subordinato pubblico e privato

in  attivazione dei principi costituzionali

e della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea

 

-         REFERENDUM ABROGATIVO DEL LIMITE DI APPLICAZIONE AI SOLI DATORI DI LAVORO CON PIÙ DI 15 DIPENDENTI DELLO STATUTO DEI LAVORATORI (Titolo IIIº e Art. 18), CON CONSEGUENTE ESTENSIONE A TUTTI I LAVORATORI

-          

-         REFERENDUM ABROGATIVO DELLA LEGGE SULLA TOTALE LIBERALIZZAZIONE DEL CONTRATTO A TERMINE

 

-          DISEGNO DI LEGGE POPOLARE E INTERVENTI IN RADICALE RIFORMA SULLA LEGGE DELEGA PER OTTENERE COMUNI E VERE TUTELE PER TUTTI I LAVORI, ALL’INSEGNA DI MODERNITA’ E FLESSIBILITA’ NELLA SCELTA LIBERA DEI PRESTORI D’OPERA DEI TEMPI E MODI DELLA PRESTAZIONE DI  LAVORO.

 

-         DISEGNO DI LEGGE POPOLARE SULLA DEMOCRAZIA, SUL DIRITTO DI VOTO E SULLA RAPPRESENTANZA NEI LUOGHI DI LAVORO

 

La battaglia nel Paese e nelle Camere sulla legge delega: un diverso mondo del lavoro è possibile

 

Nella legge delega si prevede lo scardinamento integrale del diritto del lavoro in termini di definitiva precarizzazione e frantumazione del mondo del lavoro. Si introduce il leasing di mano d’opera, si abroga la legge che punisce l’intermediazione abusiva, si riscrive il discrimine tra appalti leciti e illeciti, si prevede la cessione di lavoratori senza il loro consenso e ciò anche se si alienano macchinari non già costituenti azienda o ramo di essa, si propone la totale flessibilizzazione dell’orario dei part time e dei full time, il lavoro intermittente a chiamata, si riscrivono le norme di contratti a contenuto formativi con il dichiarato intento di trasformali in meri contratti di ingresso, certificazione dei rapporti e introduzione di clausole compromissorie nei contratti di assunzione che conducano obbligatoriamente più lavoratori a poter chiedere giustizia dei propri diritti solo innanzi a collegi arbitrali privati autorizzati a decidere in violazione di legge e contratti collettivi.

Ciò detto crediamo indispensabile non limitare la risposta ad una ferma opposizione a questo progetto ma accettare la sfida del cambiamento e  portare nelle aule del Parlamento e nel Paese un progetto radicalmente alternativo.

L’attacco all’art. 18 è il più mediatizzato ma non il più insidioso, tuttavia consente  di chiarire il vero oggetto dello scontro in atto attorno a tale strumento di tutela difficilmente spiegabile con il solo ricorso ai dati  reali (per cui solo lo 0,72% dei recessi  sono stati sanzionati tramite il predetto articolo).

Facciamo riferimento a quanto chiarito e ben riassunto nel commento dei giuristi della Consulta Giuridica della CGIL (“La delega al governo per il mercato del lavoro: un disegno autoritario nel metodo, eversivo nei contenuti”) per ribadire la vera, triplice valenza positiva dell’articolo 18,

a)      Tutela della dignità  e  della sicurezza del lavoratore nel momento in cui perde il lavoro per un motivo ingiusto. Invero un licenziamento arbitrario costituisce una profonda  offesa alla personalità stessa del lavoratore, che non può essere risarcita con una somma di danaro, per di più assai modesta.

b)      Tutela preventiva del lavoratore contro la rappresaglia  datoriale per esercizio da parte del lavoratore degli altri diritti sanciti dalle leggi del lavoro. Solo  chi sa che la controparte non potrà facilmente “vendicarsi” prima o poi con un licenziamento ingiustificato, avrà il coraggio di richiedere ad es. le ore straordinarie non pagate o la qualifica superiore spettante per le mansioni effettivamente svolte, o la stessa regolarizzazione di un rapporto di lavoro in nero o un rapporto di lavoro meno pericoloso e insalubre. Il diritto a non perdere il posto di lavoro senza la giusta causa e, in una parola,  il diritto che rende effettivi e non solo teorici tutti gli altri diritti.

c)      Efficacia diffusiva delle migliori condizioni di lavoro. Usufruire nelle imprese in cui si applichi l’art. 18 dei diritti in materia di orario, di salute, di qualifica, di retribuzione, di agibilità sindacale significa renderle un polo  di attrazione per gli altri lavoratori  dipendenti dalle imprese minori, i quali, se in possesso di una accettabile professionalità mirano a trasferirvisi, così da costringere gli stessi piccoli imprenditori ad avvicinarsi anche loro agli standard di trattamento delle imprese maggiori per non perdere la manodopera qualificata. Sul piano sindacale, il contratto collettivo stipulato grazie all’insediamento sindacale nelle imprese maggiori, ove vige l’art. 18, finisce in concreto con il valere anche per le imprese minori dove il  timore del licenziamento di rappresaglia, più o meno mascherato, trattiene i lavoratori dalla sindacalizzazione e dall’intraprendere azioni di lotta.

E’, insomma, un circolo virtuoso e non già un circolo vizioso quello che l’art. 18 innesca e mantiene l’introducendo nel mondo del lavoro il canone giuridico dei “diritti fondamentali dell’uomo” che ci accompagnerà nel resto della trattazione ed è questo che si vuole in realtà attaccare.

Ora che viene proposta l’abolizione delle tutele anche per coloro che ne avevano ottenuto il riconoscimento, il Governo, la grande impresa e i loro comuni vocalist sprezzantemente usano l’argomento per accusare la sinistra e i sindacati di difendere solo i garantiti. Il quotidiano della Confindustria (Il sole 24 ore del 29.1.2002) pone con chiarezza la questione. Il professor Pietro ICHINO, rispondendo al segretario della CGIL Sergio Cofferati che aveva definito in una intervista l’art. 18 come “elemento di civiltà”, afferma:  “se davvero fosse una questione di  civiltà, il movimento sindacale dovrebbe essere da trent’anni  in agitazione permanente per estendere questa protezione a quella metà della forza lavoro che non l’ha mai avuta”.

Proponiamo di accettare la sfida posta dalla Confindustria: mai più lavori senza diritti prendendo atto che oggi limiti di applicazione della tutela basati sulla quantità numerica di lavoratori regolarmente dipendenti nella stessa azienda sono inaccettabili. E ciò non solo perché la ristrutturazione produttiva, mediante tecniche di outsorcing e  diffusione a rete, ha un bisogno sempre minore di un nucleo di lavoratori stabilmente  e tradizionalmente occupati nella medesima unità produttiva (che a volte addirittura scompare nella sua fisicità), ma anche perché i principi giuridici europei impongono OGGI al nostro legislatore di alzare le tutele proprio per quel principio di civiltà caro a D’Antona e deriso dalla nostra Confindustria. Ed è proprio partendo dalle trasformazioni del mercato del lavoro e dalla recente e recentissima normativa europea che ci proponiamo di illustrare

-         perché occorra tutelare efficientemente OGNI lavoratore dal recesso illegittimo (anche evitando che questo sia contrabbandato sotto le mentite spoglie della naturale scadenza del termine del rapporto);

-         che il numero minimo di lavoratori tradizionalmente impiegati nella medesima unità produttiva (inteso  quale soglia per essere ammessi al godimento di diritti individuali e collettivi) è un concetto, prima che ingiusto, non più applicabile al nuovo paradigma produttivo e va abrogato;

-         che il diritto vivente in termini di tutela del lavoro subordinato è inadeguato alla trasformazione avvenuta lasciando fuori, infatti, sempre più lav0oratori che pure prestano la propria opera in modo continuativo, coordinato e prevalentemente personale in condizioni di subordinazione socio – economica.

 

Il diritto italiano e i principi della Carta dei diritti fondamentali di Nizza

 

Il lavoro, e il diritto che lo regola, è coinvolto in due  grandi trasformazioni in corso:

1)   la integrazione economica e monetaria europea;

1)   la integrazione  giuridica tra diritto comunitario e  diritto nazionale.

La nostra iniziativa tiene conto del primo aspetto e riguarda  quindi il secondo: è anzi lo sviluppo  coerente e lineare, quasi necessitato dalla approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nata proprio per far guidare l’integrazione economica e monetaria  dai valori sanciti  dal diritto comunitario e non viceversa.

La Carta riconosce, infatti, come fondamentali i diritti sociali (capo IVº), primo pilastro su cui fondare il concreto superamento dell’approccio mercatista e monetarista dominante sino allora nei Trattati. Ed infatti è possibile brevemente ricordare come la “Carta sociale europea” firmata a Torino il 18.10.61  non era richiamata nel trattato di  Maastricht del 1992 mentre  la “Carta Comunitaria dei diritti   fondamentali dei lavoratori” del 1989 non era stata firmata dal Regno Unito.

Oltre all’affermazione di  tali diritti sociali,  nella carta c’è anche il dovere degli Stati membri dell’Unione di promuovere l’applicazione e, rendere effettivo l’esercizio (art. 51,1) e il penultimo capoverso del “preambolo” della Carta ammonisce come “il  godimento di questi diritti fa sorgere responsabilità e doveri  nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle  generazioni future”.

Come si vede espressioni chiare e solenni  che stabiliscono l’obbligo degli Stati di operare in modo che l’esercizio dei diritti sia effettivo e non resti mera enunciazione. E così, va detto,  anche la nostra Costituzione pone tra i principi fondamentali il diritto al lavoro ma, essendo “sincera” nel prender atto come molti ostacoli se ne  frappongano al dispiegamento, fa obbligo allo Stato di “promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto”; la  prima delle quali è ovviamente quella di non consentire che si possa esserne privati arbitrariamente. Mantiene ancora tuta la valenza quindi l’affermazione del ministro del Lavoro Brodolini al momento della approvazione dello Statuto dei Lavoratori (legge 20.5.70 n. 300): “la Costituzione varca i cancelli delle fabbriche”. Ora si va  aggiunto che la Costituzione non solo deve rimanere dentro le fabbriche ma deve anche riuscirne per raggiungere i lavoratori in qualunque parte della catena del valore siano stati posizionati (indotto, appalto, “leasing”, telelavoro, lavoro in parasubordinazione e “parautonomia” ecc).

I diritti sindacali

 

La Carta  adottata a Nizza prevede all’art. 27 il diritto dei lavoratori e dei loro rappresentanti alla informazione e alla consultazione  nell’ambito della impresa; all’art. 28 il diritto alla negoziazione  ed alle azioni collettive. Questi diritti sono previsti  per “tutti” i lavoratori, a prescindere dal numero dei  dipendenti occupati dal loro datore di lavoro!

In Italia  i diritti di democrazia e sindacali sul luogo di lavoro sono previsti  dal titolo III dello Statuto dei lavoratori (art. da 19 a 27): riguardano diritti fondamentali (ed elementari) quali la costituzione di rappresentanze sindacali, il diritto di assemblea, la possibilità di referendum su materie inerenti l’attività sindacale, i permessi per partecipare a trattative sindacali, il diritto di affissione e di raccogliere i contributi e svolgere opera di proselitismo.

Dalla fruizione di questi (fondamentali ed elementari)  diritti sono esclusi milioni di lavoratori (8-10), la metà del mondo del lavoro subordinato.

L’art. 35 dello Statuto limita infatti l’applicazione dell’intero titolo I dello Statuto ai soli lavoratori occupati in aziende oltre i quindici dipendenti e quindi a un gran numero di lavoratori.

Proponiamo quindi il referendum abrogativo dell’art. 35 L. 300/70 con conseguente estensione dello Statuto dei lavoratori a tutti i lavoratori.

 

La tutela da licenziamento illegittimo

 

Le limitazioni poste nel summenzionato articolo 35 espressamente  rinviano non solo al godimento di diritti sindacali ma anche alla piena tutela contro il licenziamento illegittimo prevista dall’art. 18 dello Statuto solo per gli addetti delle grandi imprese. Come è noto, infatti, gli atipici non hanno tutela alcuna mentre i dipendenti di piccole imprese  hanno il diritto ad una modesta indennità risarcitoria compresa tra 2,5 e 6 volte l’ultima retribuzione goduta (e ciò solo dal 1990 dopo una specifica battaglia referendaria).

Ma l’ingiustizia di tale differenza di trattamento diviene ancora più inaccettabile oggi in quanto l’art. 30 della Carta europea prevede che “OGNI LAVORATORE ha diritto alla tutela contro OGNI LICENZIAMENTO INGIUSTIFICATO”. Al riguardo non si fa nessuna distinzione tra pubblico/privato, tra aziende con più di 15 dipendenti o meno, tra lavoratori subordinati/para subordinati (atipici); e neppure a  termine o a tempo indeterminato.

E’ innalzato cioè il livello di protezione per i lavoratori di Stati membri che non hanno tutela adeguata, e fissato un punto di non ritorno per quelli che hanno  tutela: nessuna possibilità di involuzione legislativa.

Detto ciò quale può essere la tutela adeguata di tale diritto?

Pur essendo possibile diverse risposte un punto fermo è stabilito dall’art. 52.1 della Carta stessa: essa non può essere tanto irrisoria da violare il contenuto precettivo del divieto di recesso illegittimo.

Per fare un esempio di immediata comprensibilità ci si richiama all’art. 2 ove afferma “il diritto alla vita” e all’art. 3 il “diritto  all’integrità della persona”. Se l’ordinamento, che è tenuto a  difendere tale diritto, ne punisce la violazione (ad esempio l’omicidio  o le lesioni personali gravissime) con la pena della detenzione da un minimo di 2,5 mesi a 6 mesi,  può dirsi  rispettato l’obbligo degli stati a prevedere tutele non irrisorie?  La risposta  è scontata ma è comunque utile la sua enunciazione.

L’art. 18 è invece certamente una delle possibili tutele adeguate: ma  non è per tutti, come esige la Carta Europea e anche la nostra Costituzione (art. 2, 3, 4, 41, 42) ed anzi il Governo sta agendo per farlo divenire sempre più per pochi.

Proponiamo quindi non solo di opporci al suo progressivo smantellamento ma anzi l’abrogazione in via referendaria del limite che ne prevede l’applicazione alle aziende con più di 15 dipendenti: (parte dell’art. 18 così come modificato dall’art. 1 108/90, art. 2, 3 parte art. 4 108/90 e 814/66).

Referendum del tutto legittimo (già si è pronunciata Carta Costituzionale 90) con quesito lineare, chiarissimo, coerente.

La conseguente legislazione di “risulta”, a seguito dell’auspicato successo dell’iniziativa referendaria, è infatti altrettanto lineare, chiarissima, coerente:

“ogni lavoratore licenziato  ingiustamente ha diritto a riavere il posto   ed  un risarcimento danni pari alle retribuzioni perdute dal licenziamento alla reintegrazione”.

Si darebbe così una poderosa spinta alla ricomposizione del mondo del lavoro subordinato in Italia, pubblico (il 18 vale ormai anche per loro) e privato ricostruendo una comune civiltà del lavoro, estendendo la democrazia, portando la Costituzione oltre la soglia  di OGNI  luogo/non luogo di lavoro.

 

L’obbligo di una specifica occasione di lavoro temporanea quale unica a fronte di un contratto a termine e la previsione di sanzioni nei confronti del suo abuso in termini di eccessiva e fraudolenta reiterazione

 

Riprendendo l’accordo quadro delle centrali sindacali Europee  CES, UNICE e CEEP  (composte ovviamente anche dai sindacati confederali italiani) il Consiglio Europeo ha emanato la Direttiva 1999/70/CE ove per “creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a termine”  ed ha riconosciuto ”che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra di datori e i lavoratori e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a  migliorarne il rendimento” stabilendo che è un termine lecito solo quel “termine determinato da condizioni oggettive quali un raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico”  (direttiva ritenuta – con la Sentenza 41/200 della Corte Costituzionale –  già direttamente vincolante). Con una vera e propria truffa legislativa il Governo Berlusconi ha colto l’occasione dell’obbligo di recepimento di tale direttiva non per completare la disciplina italiana di garanzia ma emanando un Decreto legislativo che ha deliberatamente esteso il ricorso al lavoro precario limitando le garanzie contro gli abusi. Ed infatti nella legislazione previgente il ricorso alle assunzioni a tempo determinato era consentita solo nei casi e per gli scopi tipizzati mentre ora "l’apposizione di un termine " può essere sempre valida genericamente "a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo". E’ stata altresì omessa, limitandone l’operatività alla sola "proroga", la regola per cui "l’onere della prova relativa all’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro (…) è a carico del datore di lavoro". In terzo luogo la nuova normativa tiene esente "da limitazioni quantitative", moltissime ipotesi di contratto a termine, mancando altresì ogni limite alla reiterazione massima dei contratti.

C’è, cioè, una totale dissonanza tra la direttiva e la legge di attuazione. La nostra iniziativa alla Corte costituzionale in occasione della presentazione della memoria avverso il referendum proposto dai radicali (sent. 41/2000), sopra richiamata, aveva portato alla dichiarazione di inammissibilità del referendum abrogativo in quanto vi era  già “conformazione anticipata” dell’Italia. Ciò che non può fare la “sovranità popolare” è, ovviamente, escluso anche per il governo in sede di decretazione.

La generalizzazione o moltiplicazione  infinita dei contratti a termine comporta la abrogazione di fatto della disciplina limitativa dei licenziamenti e la sostanziale inoperatività dell’art. 18 per gran parte dei futuri lavoratori e deve essere inclusa nella proposta abrogativa.

 

Disegno di legge di iniziativa popolare di tutela dei lavoratori “atipici”

 

Tutte le forze politiche presenti in Parlamento manifestano attenzione per quel cospicuo mondo del lavoro (4 milioni circa) genericamente autonomi, coordinati e continuativi, atipici, privi di ogni diritto nel rapporto di lavoro.

Alcuni usano strumentalmente questo dato di fatto contrapponendo i garantisti ai senza diritti e proponendo di ridurre le tutele dei primi per poi attribuire alcune a chi ne è totalmente privo.

Un ragionamento assurdo prima che strumentale. Come dire che la tutela dei malati comporta necessariamente la privazione della salute di chi sta  bene.

La soluzione, noi crediamo, è incamminarci verso un modello di lavoro “sans phrase” dove tutti scelgano la forma contrattuale che più gli aggrada all’interno di un contesto unico e certo di forti regole comuni (anche se  differentemente modellate in base alla caratteristiche effettive della modalità della prestazione) Lanciamo quindi una sfida positiva al Parlamento. L’esercizio della democrazia diretta propone a quella rappresentativa  una RICOMPOSIZIONE vera di TUTTO IL MONDO DEL LAVORO. Un unico tipo contrattuale a geometria  variabile.

Tutto il lavoro,   eterodiretto e autodiretto (è secondaria la distinzione) tutta la attività delle persone che si “concreti in una prestazione di  opera continuativa e coordinata prevalentemente personale” (per usare una definizione già esistente nel mostro ordinamento: art. 409 n. 4 c.p.c.) comunque in condizione di “subordinazione socio economica” (nozione elaborata nel rapporto SUPIOT) è titolare di diritti fondamentali, poi altri diritti vengono modulati a seconda della tipologia contrattuale che le parti liberamente scelgono e addirittura autocertificano: nessuna “intrusione” nella qualificazione giuridica del rapporto. Nessun limite alla libera creazione del mercato: innumerevoli tipologie contrattuali iperflessibili, centinaia di  rivoli che afferiscono  ad un tipo contrattuale  base ove sono declinati i diritti fondamentali delle persone che lavorano (tutela di salute, sicurezza, formazione, reddito,  qualificazione, orario).

Solo questo, crediamo, ci consente di riunificare il soggetto sociale lavoratori, non pretendere di mettere le mutande alla storia ma anzi (perché no) abbandonare progressivamente la ridotta della difesa a oltranza della subordinazione che, in fondo, è l’esatto opposto della nostra idea di liberazione del lavoro. Ma il punto è evitare che le tutele approntate siano  aria fritta (o “soft law” come educatamente traduce il libro bianco Maroni) e che non conducano, come vorrebbe il Governo, ad un baratto tra il pochissimo che si offre ai precari e il moltissimo che si vuole togliere agli ultimi scampoli di lavoro stabile. Nulla va tolto al lavoro dipendente tradizionale moltissimo (tutto) va aggiunto, in termini di hard law capace con appropriate sanzioni di imporre il proprio precetto ai nuovi lavori.

 

Disegno di legge di iniziativa popolare sulla democrazia nei luoghi di lavoro

 

L’abrogazione parziale dell’art. 19 S.d.L. e quella totale dell’art. 47 decreto legislativo n.29 del 3.2.93, che vincolavano alla “maggiore rappresentatività” sindacale la rappresentanza rispettivamente nel settore privato e in quello pubblico, conseguente all’iniziativa referendaria promossa dal Movimento dei consigli, non ha trovato risposta adeguata nel legislatore che ha regolato per legge rappresentanza e diritto di voto solo per il settore pubblico, mentre il settore privato rimane regolato dai contratti collettivi, senza vincoli di applicabilità. A questa situazione di ineguaglianza il governo sembra intenzionato a porre un rimedio drastico e definitivo con il progetto di decontrattualizzazione del rapporto di lavoro contenuto nel “libro bianco”, con il quale si introduce il rapporto diretto tra dipendente e datore. Nel frattempo la pratica dei contratti separati – affermata come principio ispiratore dal ministro Maroni - abroga ogni criterio di rappresentatività, maggiore o effettiva. Lo dimostra l’esito del referendum sull’ultimo contratto dei metalmeccanici, proposto dalla FIOM, soggetto non firmatario del contratto: le firme raccolte – 350.000 – rappresentano di gran lunga la maggioranza dei lavoratori rispetto a quelli rappresentati dalle organizzazioni firmatarie.

Per queste ragioni è del tutto evidente che il disegno di legge che garantisca ad OGNI lavoratore il diritto di voto su accordi e contratti e di elezione della propria rappresentanza completa organicamente la proposta di ingresso della Costituzione nelle fabbriche e i rimandi alla Carta europea dei diritti fondamentali (artt. 27 e 28).

 

 

 

 

 

 

 

 

(Sintesi del documento elaborato da Pier Luigi Panici e Carlo Guglielmi)