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Da: Forum sull'organizzazione del lavoro; Politica aziendale e risultati conomici; Organizzazioni sindacali e rappresentanze unitarie

CHE FARE?

Premessa

Ho scelto questo titolo un po' impegnativo perchè voglio trattare i problemi delle Rappresentanze Sindacali in IBM dal punto di vista esclusivo delle difficoltà generali di fare sindacato nelle aziende composte in prevalenza da tecnici e impiegati, e dell'incapacità, o dalla mancanza di volontà, delle Organizzazioni Sindacali, e in particolare della FIOM-CGIL, di affrontare le tematiche di fondo dell'intervento fra i dipendenti di tali imprese. Cercherò quindi di evitare il più possibile di fare riferimento a quanto vi può essere di specifico nel gruppo IBM Italia.

Prima di passare alle critiche, vorrei segnalare quali sono, a mio parere, i punti validi e forti della posizione di FIOM-CGIL, che sarebbero anche una buona base di partenza anche per una impostazione piu' incisiva di quella attuale.

1. L'essere un sindacato generale e non un sindacato di mestiere (modello che prevale nel mondo anglosassone). Il sindacato di mestiere è strutturalmente diffidente verso tutte le nuove tecnologie, viste sempre come minacce al "mestiere" su cui è modellata l'organizzazione. (Questo, a mio parere, è la ragione per cui, nella narrativa e nella letteratura sociologica anglosassoni, il sindacalista è per definizione un conservatore, se non un nostalgico, di forme organizzative e tecnologiche superate). Un sindacato generale, che si rivolge al lavoratore dipendente in quanto tale, è in grado di valutare le nuove tecnologie senza pregiudizi, apprezzandone alcune, proponendo modifiche ad altre, e respingendone altre ancora, in base a valutazioni di merito e non a pregiudizi o peggio a interessi di sopravvivenza organizzativa. (La questione del modello sindacale sta tornando di attualità perchè nei luoghi di contatto fra tradizioni sindacali nazionali diverse, come i Comitati Aziendali Europei (CAE), ci si rende conto che le stesse parole portano seco bagagli di esperienze storiche molto diverse).

2. Il mantenere valido il principio della contrattazione a due livelli, che permette di articolare la dimensione dei diritti e delle conquiste comuni con quella della specificità delle singole imprese.

3. L'aver tenuto fermo il principio dell'importanza delle rappresentanze elettive dei lavoratori (prima i Consigli di Fabbrica, oggi le RSA/RSU) e della loro dimensione autonoma di riflessione e di intervento (anche come forte contrasto al pericolo di deriva burocratica degli stessi funzionari sindacali). Almeno in linea di principio, da ambienti lavorativi più scolarizzati e più abituati al ragionamento astratto e a lavorare con strumenti simbolici e comunicativi, dovrebbe uscire una maggiore esigenza e disponibilità ad autogestire l'iniziativa sindacale.

4. L'aver proposto e difeso validamente il principo per cui, se gli accordi collettivi valgono erga omnes, questi stessi "tutti" (e quindi non solo gli iscritti al sindacato) devono essere chiamati ad approvare o a respingere, tanto la piattaforma di una vertenza quanto la proposta finale di accordo. Questa impostazione, valida sempre, è addirittura vitale per mantenere contatti e rappresentanza in ambienti che finora si sono mantenuti a distanza dalle iniziative sindacali.

Su queste buone fondamenta, però, finora non sono state costruite iniziative di ugual valore verso le imprese più riplasmate dalle nuove tecnologie e forme organizzative.

Per punti:

1. L'intervento a livello internazionale è ancora considerato argomento da delegare a oscuri uffici studi, convegni paludati e irraggiungibili comitati. Purtroppo, praticamente tutte le aziende ad alta tecnolgia sono ormai imprese globali, e un intervento sindacale che non abbia una dimensione perlomeno europea non è più credibile agli occhi dei lavoratori, i quali vivono quotidianamente l'internazionalizzazione delle relazioni produttive.

2. Le imprese si fanno, si disfano, si fondono e si scorporano giorno dopo giorno. Inoltre, la convergenza tecnologica e culturale verso le strutture a rete, i dispositivi elettronici, la terminologia inglese, la finanziarizzazione delle scelte produttive ... hanno reso sempre più simili attività che si svolgevano in settori industriali un tempo molto differenti. Il sindacato appare prigioniero, culturalmente e organizzativamente, dei bizantinismi delle "categorie": abbiamo ormai nella stessa impresa lavoratori che svolgono lavori simili ma risultano inquadrati da contratti collettivi differenti, e i funzionari e rappresentanti sindacali devono impegnarsi in consultazioni tipo Nazioni Unite anche per prendere decisioni banali. Visto che questo problema, in modo o nell'altro, va moltiplicato per 25 (i Paesi dell'Europa più o meno unita), non varrebbe la pena pensare a uno strato contrattuale comune intercategoriale paneuropeo, che fissi regole e garanzie minime comuni, terminologie univoche e condivise, ecc.? E intanto, per iniziare, darsi qualche regola organizzativa di buon senso per far funzionare le Rappresentanze Sindacali nei gruppi industriali multicategoriali?

3. Le considerazioni precedenti, pure importanti, sono tuttavia quasi marginali a fronte della questione del distacco della cultura e dell'azione sindacale dall'organizzazione d'impresa odierna. Questa estraneità si manifesta in molti modi, alcuni dei quali cercherò di esporre nei punti successivi; in questo vorrei affrontare il nodo fondamentale, che è quello della complessità dei prodotti, dei processi e delle relazioni. La misura più drasticamente semplificata della complessità di una mansione può essere, in prima battuta, quella di moltiplicare il numero dei possibili input (comandi elementari) per il numero di possibili output (azioni elementari). Oggi può sembrare una semplificazione estrema, ma non sarebbe sembrata tale ai signori Taylor e Ford. Ebbene, finchè si è potuto costruire, almeno concettualmente, una simile tabella, si è avuto un mansionario, per quanto oppressivo, comunque facilmente comprensibile e in quanto tale persino - con certi rapporti di forza - contrattabile sindacalmente. Non solo: l'immediata omogeneità di un simile mansionario con le operazioni meccaniche rendeva immediatamente efficace l'astensione dal lavoro: il lavoratore, ridotto a macchina semplice per poter interagire con altre macchine semplici, fermandosi, fermava anche le macchine a cui era addetto. Oggi l'elettronica allontana le azioni delle macchine dalle azioni degli uomini, e crea mondi virtuali in cui i compiti sono sempre meno definibili come tabelle che mettono in relazione i comandi che i lavoratori ricevono con le attività che devono eseguire. Quando la complessità dei compiti supera certe soglie, è necessario (a vari livelli) delegare agli esecutori l'interpretazioni dei compiti e lasciare sempre più ampi margini di decisione su come eseguirli. Qui nascono problemi per tutti: per la direzione aziendale come per il sindacato. La direzione aziendale, da una parte fa buon viso a cattivo gioco, esaltando questa dimensione non deterministica dell'attività con la retorica della professionalità o addirittura della creatività; dall'altra, cerca in ogni modo di ridurre al minimo questa decisionalità del lavoratore, parcellizzandone il lavoro anche al prezzo di perdere significativamente in efficienza, inserendo a ogni piè sospinto punti di controllo o l'obbligo dell'autorizzazione di un dirigente (fino al paradosso per cui il dirigente, esasperato, delega l'autorizzazione alla propria segretaria ..). Nel cuore di questo conflitto si collocano nuove regole collettive, come per esempio la certificazione ISO 9000. Essa è una certificazione di processo, non di prodotto: si può certificare ISO 9000 anche la produzione di biciclette con le ruote quadre. La certificazione esige fondamentalmente tre cose. I) Che il processo produttivo sia descritto II) Che chi produce conosca la descrizione del processo e la segua veramente, senza introdurre varianti non descritte (per esempio, se si vuole incominciare a produrre biciclette a ruote triangolari, per ridurre del 25% i sobbalzi, bisogna descrivere anche il processo di modifica tecnica del prodotto). III) Che chi viene certificato sia disponibile a ricevere ispezioni. La verifica della certificazione non è affidata a un organo statale, ma al mercato: qualsiasi cliente può chiedere a un'impresa che si proclama certificata ISO 9000, il Manuale della Qualità, e chiedere di effettuare un'ispezione di verifica della sua corrispondenza con i reali processi lavorativi. Il cliente, insomma, non può lamentarsi delle ruote quadrate, ma può verificare che vengano prodotte in modo accuratamente descritto. Il Manuale della Qualità ISO 9000 funziona bene per attività tutto sommato classiche, come la produzione di veicoli e di medicinali, la movimentazione di merci, la manutenzione programmata di strumenti ecc.; diventa una camicia di forza per processi più immateriali, come la vendita, il marketing, i servizi finanziari, la ricerca, la formazione, la gestione del personale ... per cui le descrizioni dei processi o sono così generiche da essere inutili, o, se troppo precise, risultano eternamente in conflitto con la mutevolezza delle esigenze e comunque costosissime da mantenere aggiornate. E, nonostante tutto ciò, le imprese non possono più rinunciare a scrivere e a riscrivere per se stesse come sono fatte e come lavorano, perchè la complessità minaccia sempre di più di oscurare agli stessi dirigenti, e a tutti i lavoratori che devono prendere decisioni grandi o piccole, la rete di interrelazioni e i contesti in cui quelle decisioni vanno prese. Il sindacato tende a rimuovere questa nuova realtà, per una molteplicità di ragioni:

4 In una modalità diffusa dell'attuale organizzazione del lavoro impiegatizio, i lavoratori di un ufficio si trovano a dover prelevare da dei "distributori automatici" (una o più applicazioni informatiche, o anche semplicemente dalla posta elettronica) delle "unità di lavoro" su cui intervenire (un contratto da completare con alcune clausole o alcuni prezzi, un ordine a un fornitore da ridefinire, un progetto da verificare se rispetta determinati criteri, e così via). Di regola, più impiegati prelevano dagli stessi distributori, e vi sono misure del lavoro svolto da ciascuno. Se il lavoro eccede le capacità del reparto, i lavori vanno in coda e i tempi di esecuzione si allungano; i capi si lamentano e promettono incentivi a chi aumenta ritmi e tempi di lavoro e quindi contribuisce maggiormente a ridurre il pregresso. Con questo meccanismo, si assorbe agevolmente anche l'eventuale astensione dal lavoro di alcuni: i colleghi vedranno più vicini gli incentivi per il lavoro extra (in certi casi, per smaltire l'arretrato, si assumono lavoratori a tempo determinato). Questa organizzazione, insomma, include la precarizzazione e il crumiraggio come elementi fisiologici e strutturali. Ma persino nel caso estremo in cui tutto il reparto fosse compattamente in sciopero, avverrebe semplicemente che la coda dei lavori in attesa sarebbe più lunga e l'indomani tutto ricomincerebbe da capo. La differenza con la produzione classica risiede sia nella maggiore parallelizzazione del lavoro, sia nel fatto che le macchine (gli elaboratori) si comportano praticamente come se avessero capacità produttiva infinita: i tempi di attesa sono dovuti quasi esclusivamente alle attività umane. Insomma, se si ferma una linea di montaggio in una fabbrica tradizionale, si ha una perdita "assoluta" di produzione, perchè la linea molto più velocemente di tanto non può andare, specie se è già tenuta vicino alla saturazione; i sistemi imformatici amministrativi non si saturano quasi mai, e tutto è riassorbibile aumentando a dismisura i tempi e i ritmi del lavoro umano. A questa descrizione di base bisogna aggiungere le precedenti considerazioni sulla complessità e sulla relativa discrezionalità professionale: molti lavori anche relativamente semplici richiedo in realtà la conoscenza di intrecci di norme e di consuetudini, di storie di problemi analoghi risolti in passato ecc. (sono le stesse aree in cui va in crisi il Manuale dalla Qualità, ovviamente). Ciò significa che si crea una rete informale di lavoratori esperti (che spesso si aiutano reciprocamente sulla base del do ut des) la cui produttività è molto più elevata degli altri e che vedono i meno produttivi come coloro che fanno perdere tempo al reparto e soprattutto a loro, senza aver nulla da dare in cambio (questi lavoratori meno produttivi, avendo una "storia di problemi risolti" alle spalle molto meno ricca, hanno la necessità di chiedere continuamente aiuto e consiglio). La partecipazione alle attività sindacali è una delle modalità con cui un lavoratore può venire silenziosamente estromesso dal club dei più produttivi. Questa organizzazione del lavoro, insomma, include forme più o meno larvate di mobbing come elemento quasi inevitabile. Naturalmente non si può generalizzare, ma se la minoranza che sciopera appartiene prevalentemente all'area dei meno produttivi (perchè più professionalmente frustrata, più esclusa dalle reti di relazioni più pregiate, con i superminimi individuali più bassi ecc.), questo costituisce un ulteriore forte demoltiplicatore dell'efficacia dello sciopero stesso: per esempio, anche in caso di partecipazione estremamente elevata (10-20%), l'impatto immediato effettivo sulla produzione potrebbe essere minore del 5%, senza parlare degli aspetti di immagine e di prestigio sociale (la "vera azienda" non sciopera, scioperano solo i "marginali"). Unico elemento di controtendenza, la riduzione degli addetti, che costringe l'azienda a contare su tutti e a coinvolgere, volente o nolente, con le buone o con le cattive, anche i "marginali".

5 In questo quadro, la professionalità è sottoposta a tensioni contraddittorie: l'azienda ne ha molto bisogno, ma vuole farsi condizionare da essa, e pagarla, il meno possibile. La professionalità più coriacea è quella di tipo tecnico, perchè non è facilmente sostituibile con soluzioni organizzative e perchè può trovare un mercato esterno di riferimento: il lavoratore può andarsene con una certa facilità. L'azienda, naturalmente, ci prova comunque, standardizzando tutto lo standardizzabile, remotizzando certe forme di supporto e di consulenza, costringendo le persone a mettere in comune il "capitale intellettuale", cercando di trovare giovani brillanti a buon mercato per fare sentire meno indispensabili i vecchi guru. Il rapido cambiamento tecnologico aiuta molto in questo senso.
Per quel che riguarda gli aspetti più amministrativi e organizzativi, vi sono probabilmente due tendenze opposte: o l'incorporazione delle competenze negli strumenti informatici (come le aziende che adottano sistemi tipo SAP, i quali si presentano come collezioni delle migliori pratiche organizzative a livello mondiale) o la parcellizzazione delle attività, perdendo in efficienza, ma aprendo la strada alle delocalizzazioni nel terzo mondo (come sta tentando di fare IBM, che evidentemente non si fida molto dell'informatica). Il sindacato, se fosse capace di mettersi accanto al lavoratore e ad accompagnarlo nel fare un "bilancio di carriera", lo aiuterebbe (e si aiuterebbe) a comprendere meglio questi meccanismi, e magari a contrastare decisioni aziendali di disconoscimento della professionalità che possono arrivare all'autolesionismo. Ma i rinvii di decennio in decennio da parte della FIOM-CGIL di tutta la tematica dell'inquadramento professionale, e la dimensione catacombale con cui si è discusso di ciò, non fa ben sperare: il risultato è che gli impiegati e i tecnici sanno a malapena qual è il loro livello di inquadramento, e nessuno si sogna di verificare le proprie attività a fronte delle declaratorie contrattuali attuali.
Inoltre, avendo le aziende comunque la necessità di classificare i propri dipendenti in base alle capacità e ai ruoli professionali (fa parte dell'"autodescrizione aziendale" di cui si parlava prima), creano schemi del tutto avulsi dai contratti collettivi, avendo come riferimento profili professionali internazionalmente riconosciuti, definiti con criteri e terminologia anglosassone ecc.., e relegando il CCNL nel limbo dell'archeologia industriale. Le classificazioni e le valutazioni aziendali diventano anche la base per l'erogazione dei superminimi individuali e tutte le altre forme di gratifiche e incentivi non contrattate collettivamente. La completa egemonia aziendale sul riconoscimento professionale si completa con l'assorbimento di parte dei superminimi negli aumenti contrattuali: a questo punto per molti lavoratori l'irrilevanza pratica delle iniziative sindacali diventa completa. Ed è velleiatario protestare contro tali assorbimenti, perchè la radice di questa operazione aziendale sta nel ritardo e nell'incapacità sindacale di svolgere il proprio fondamentale ruolo: contrattare il prezzo della prestazione lavorativa, CONOSCENDONE IL VALORE. La battaglia contro gli assorbimenti è concettualmente sbagliata perchè, non solo non affronta il problema alla radice, ma ne allontana la soluzione. Infatti, per questa strada, l'unica soluzione realistica è quella di RIDURRE al massimo gli aumenti richiesti per i livelli superiori sperando di strappare la non-assorbibilità. Ma ciò significa rinunciare a priori ad avere un punto di vista sindacale autonomo sulla valutazione della professionalità, visto che alla fine lo stipendio effettivamente percepito sarabbe la somma della parte contrattata collettivamente e del superminimo individuale divenuto "impenetrabile". La vera soluzione sta nella direzione opposta: accettare come legittimi gli assorbimenti (in coerenza anche con la recente sentenza della Corte di Cassazione), riformare l'inquadramento, respingere la demagogia dell'egualitarismo salariale, e se necessario aumentare la forbice fra i livelli e/o il numero dei livelli e/o le declaratorie dei livelli in base a criteri decisi dal movimento sindacale in sede di preparazione della piattaforma per il rinnovo del CCNL.

6 Un sindacato capace di organizzarsi e lottare anche a livello internazionale, meno prigioniero degli inquadramenti categoriali, attrezzato per vedere i flussi produttivi e la cooperazione effettiva dei lavoratori al di là dei confini artificiali delle "ragioni sociali" delle imprese, capace di descrivere e remunerare i ruoli e le professionalità che esistono effettivamente nel mondo produttivo odierno, sarebbe già ben più visibile e interessante per centinaia di migliaia di impiegati e tecnici. Ma rimangono da trattare due nodi fondamentali e intrecciati fra di loro: il ruolo sociale del sindacato e le forme di lotta.
Il ruolo sociale diventa tanto più importante quanto meno le istanze degli impiegati e dei tecnici riguardano valori salariali di pura sopravvivenza. Perchè l'iniziativa sindacale sia socialmente percepita come positiva non può riguardare il puro miglioramento economico e normativo categoriale, ma deve essere anche portatrice di valori sociali più generali e profondi. Nei confronti del sistema delle imprese, la parte più socialmente sensibile e culturalmente attenta dei cittadini sta manifestando una preoccupazione e una sfiducia sempre più profonda. Spaventa che tecnologie sempre più potenti e pervasive vengano progettate, prodotte e vendute al solo scopo di immettere altro denaro dei circuiti finanziari internazionali, senza alcuna assunzione di responsabilità verso le conseguenze a largo raggio e a lungo termine di tali tecnologie (per non parlare dei disastri provocati dalle speculazioni finanziarie).
Ognuno di noi ha le sue opinioni, se tali contraddizioni siano una caratteristica strutturale e insuperabile del sistema capitalistico, o se invece la cultura liberale abbia le risorse intellettuali, morali e politiche per riformare le regole del gioco; in tutti i casi, i lavoratori, e in particolare quelli più vicini alla formulazione delle politiche aziendali, siedono per così dire nelle poltrone di prima fila dello spettacolo dell'introduzione di nuove tecnologie e forme organizzative. Impiegati e tecnici, organizzati sindacalmente, possono essere le avanguardie del dibattito sociale sulle trasformazioni in corso e sulle loro conseguenze, oltre a vincolare le imprese a non abbandonare il terreno della legalità e del rispetto delle norme internazionali. Ma, ancora una volta, per fare questo bisogna organizzarsi in modo che il militante sindacale sia uno dei lavoratori più competenti su quanto avviene nelle imprese, e non una figura sempre più lontana e sconnessa dai temi, i ritmi, i linguaggi dell'azienda. D'altra parte, sarebbe facile dimostrare ai lavoratori che combattere pratiche illegali, produzioni pericolose, immissione di personale non qualificato, falsificazioni propagandistiche delle effettive capacità aziendali, manipolazioni dei dati di bilancio ... costituisce un buon modo per migliorare la qualità delle prestazioni professionali e per aumentare la sicurezza del posto di lavoro, oltre a costituire una tutela per la società in generale.
Lotte basate anche sulla denuncia di decisioni aziendali errate o socialmente irresponsabili, richiederebbero un'organizzazione sindacale retrostante completamente rinnovata (oltre all'ufficio legale ci vorrebbero gli esperti di bilanci, di certificazione della qualità, di formazione professionale, di bilancio di carriera ...) ma probabilmente porterebbero le direzioni aziendali al tavolo delle trattative con più forza contrattuale di quanto non facciano attualmente gli scioperi degli impiegati e dei tecnici, che si riducono troppo spesso a permessi sindacali non retribuiti per i rappresentanti sindacali e i loro amici più intimi.

Giovanni Talpone

Segrate, 22/3/2006

Post scriptum, circa un anno dopo

Questo testo ha ricevuto alcune critiche, una scritta, riguardante la descrizione dell'organizzazione del lavoro, che rileva effettivamente un errore nell'esposizione, e altre, verbale, riguardanti la questione degli assorbimenti. Su quest'ultimo punto, mi è stato obiettato che molte aziende non erogano superminimi individuali, mentre alcune ne erogano di cospiqui; a fronte di livelli retributivi molto diversificati, specialmente nelle categorie più elevate, la non-assorbibilità sarebbe l'unico modo "per dare qualcosa a tutti".
A mio parere, la conclusione da trarre è esattamente quella opposta. Infatti, supponiamo che una piattaforma sindacale prevede forti aumenti per le categorie più elevate e la non-assorbibilità. Ovviamente le aziende che già erogano superminimi significativi si opporrebbero con forza a tali richieste. Se il Sindacato volesse tener fermo il principio della non-assorbibilità, dovrebbe giocoforza cedere sull'entità degli aumenti per le categorie più elevate, ottenendo due risultati negativi:

Un'altra obiezione argomenta che l'effetto perequativo si otterrebbe non di colpo, ma progressivamente: supponendo non modificabile l'ammontare complessivo che un'azienda è disposta a erogare in stipendi, una politica di richieste salariali non assorbibili porterebbe a modificare le proporzioni fra salario contrattato e discrezionale, a vantaggio del primo. Anche questa considerazione non mi convince affatto: A mio parere, la scelta sindacale strategica dovrebbe consistere nel contrattare un sistema di valutazione professionale più razionale e credibile di quelli aziendali, e in base ad esso chiedere forti aumenti assorbibili. In questo modo, si ridurrebbe il vantaggio dei dipendenti premiati dall'azienda per prevalenti ragioni di nepotismo o accettazione acritica delle scelte aziendali, e si premierebbero i lavoratori più preparati e magari emarginati perchè non in linea con le scelte (e gli errori) manageriali, o per aver denunciato pratiche industriali illegali o socialmente pericolose (prodotti o servizi non conformi alle specifiche, prestazioni di lavoro illegali, lavorazioni a rischio, inquinamento ...).

G. Talpone