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Da: Forum; Quadri e dirigenti


Il padrone è un lavoratore?

English abstract: Half Karl Marx could be still useful to understand the world of entrepreneurs, managers, clerks and technicians


La questione, non proprio nuova, è riproposta dalla corrispondente affermazione di Walter Veltroni fatta durante la campagna elettorale per le elezioni politiche di quest'anno. Così impostata, sembra ammettere due sole risposte: Sì o No. Vi propongo qualche riflessione su entrambe le possibilità, e una via per cambiare punto di vista.

Sì, è un lavoratore come gli altri.

Questa risposta si basa su di un'evidenza empirica: in genere, i padroni che possiamo incontrare (i piccoli, perché dove stiano e cosa facciano gli altri, ai comuni mortali non è dato di saperlo), lavorano più dei loro dipendenti. E se l'azienda è davvero molto piccola, spesso fanno più o meno le stesse cose, almeno in parte. Questa visione ha poi dalla sua parte una forte spinta sociale e culturale: in un Paese come l'Italia, in cui ogni grande organizzazione (pubblica o privata) sembra condannata alla burocratizzazione e all'immobilismo culturale e tecnologico, fino a costituirsi come terreno di cultura di connivenze fra alta direzione, funzionariato statale, sindacalismo corporativo ecc., il popolo dei padroncini può essere visto come un'alternativa vitale alla stagnazione. Da qui la necessità ideologica di nobilitarne la figura e il ruolo, e di picconare l'ideologia opposta.

Eppure qualcosa non torna. Non solo, banalmente, perché molti padroncini vivono bene anche grazie alla paralisi delle grandi strutture (quante auto in meno, e quindi quante autofficine in meno, se i trasporti pubblici funzionassero! Quante "strane aziendine" sparirebbero, se fossero costrette a pagare le tasse, mettere in regola i dipendenti, garantire la sicurezza sul lavoro, rinunciare ai contributi pubblici non dovuti, non falsificare la data di scadenza dei prodotti deperibili, spiegare come vengono eliminati i rifiuti tossici...); ma anche, e soprattutto, il quadretto edificante del padrone-che-lavora non comprende il grande manager, il capitano d'industria, il grande finanziere, l'alto funzionario statale ecc.: quelli che una volta venivano definiti "alta borghesia". Il loro lavoro è davvero assimilabile a quello di tutti gli altri?

No, non è un lavoratore come gli altri: la sua attività consiste nello sfruttare il lavoro altrui.

Questa è, ovviamente, la classica risposta "giusta" "di sinistra". La sua origine più importante è la teoria di Karl Marx. In particolare, il suo modello economico del sistema capitalistico, in cui il valore delle merci è riconducibile alla quantità di lavoro necessaria per produrle, permetterebbe in linea di principio di calcolare esattamente il tasso di sfruttamento, cioè il valore del prodotto del lavoratore che il padrone gli sottrae. In questo modello, il padrone non lavora, cioè non produce valore: la sua attività è concentrata nell'appropriarsi della massima frazione di valore prodotta, lasciando al lavoratore solo il minimo indispensabile per sopravvivere e riprodursi. Questa teoria possiede il doppio fascino della semplicità concettuale e della riproposizione, in chiave laica e moderna, dell'antica scena del Giudizio Universale, in cui buoni e cattivi vengono separati da una Ragione Suprema.

Ciononostante, il fallimento teorico di questa teoria (dimostrato analiticamente, fra gli altri, dall'economista amico di Gramsci e Keynes, Piero Sraffa) e soprattutto il crollo del sistema sovietico e la svolta liberista cinese, ne hanno distrutto ogni credibilità culturale e politica. A qualcuno parrà che occuparsi ancora di queste cose sia un po' come discutere della migliore distribuzione del chinino di stato nell'Agro Pontino, o sulla più corretta installazione delle lampade a carburo sui velocipedi. A me preoccupano alcune soppravvivenze di un marxismo assunto non come una teoria che può essere discussa e verificata, e quindi evolvere e mutare, ma come modo ovvio per leggere alcuni aspetti della realtà.

Per esempio, una certa incomprensione venata di disprezzo verso l'attività dei dirigenti d'azienda, l'idea che la complessità dei problemi produttivi nasca unicamente da una distorsione del sistema capitalista, e che in sistema "più giusto" sarebbero facilmente risolvibili, la convinzione che quando un lavoratore dipendente lascia il suo posto e cerca d'iniziare un'attività in proprio sia o un incosciente o uno che ha deciso di "passare dall'altra parte", pronto a sfruttare il lavoro altrui pur di arricchire, l'ostilità ad ogni istanza di riconoscimento del contributo individuale, l'imbarazzo a discutere delle problematiche economiche e gestionali che nascono all'interno dell'organizzazione sindacale, e così via.

Di queste convinzioni, a mio parere le due più pericolose per il sindacato sono la sottovalutazione delle problematiche economiche e produttive (che vengono prese in considerazione quasi sempre solo quando l'azienda è decotta, e quindi solo come esercizio di vuota polemica) e la tendenza (in genere inconsapevole, ma che influenza la contrattualistica, il reclutamento, la retorica della comunicazione, financo l'iniziativa legislativa) a definire una linea di separazione fra "veri lavoratori" e "quelli che stanno con il padrone" (quadri, dirigenti, consulenti, capi, personale ad incentivo ecc.). Ritornerò oltre sulle conseguenze di questa cultura: qui mi limito a dire che in questo modo si riesce a parlare quasi esclusivamente solo a chi svolge le mansioni meno qualificate, e si rinuncia in partenza a ogni velleità di interloquire credibilmente con le scelte aziendali e con le politiche produttive ed economiche in generale.

E allora?

La domanda iniziale sembrava avere solo due possibili risposte, e a quanto pare entrambe portano a conseguenze insoddisfacenti.

Personalmente sono propenso a rispondere in senso positivo alla domanda iniziale, ma con motivazioni e conseguenze operative molto diverse, diciamo pure opposte, alla cultura politica del partito che in queste settimane ha candidato al Parlamento Emma Bonino, Massimo Calearo e Pietro Ichino.
L'abbandono ragionato e convinto della teoria del valore-lavoro, e più in generale di tutto il marchingegno messianico (per cui la rivoluzione può verificarsi solo quando tutta la ricchezza sta da una parte e la capacità produttiva dall'altra), e l'accettazione altrettanto ragionata e convinta della sconfitta storica (sociale, sindacale, politica, culturale) dell'operaio fordista, permette di riesaminare quegli altri aspetti del pensiero di Marx che varrebbe ancora la pena di mettere alla prova come chiavi di lettura della realtà attuale.

Innanzitutto la riflessione sull'incorporazione della scienza nelle macchine, che ci può condurre oggi a concludere (negando una convinzione fondante di tutto il marxismo classico) che la complessità produttiva non è un effetto perverso del sistema capitalistico, ma ha le sue radici nel livello di sviluppo delle forze produttive (per usare una terminologia tipicamente marxista). In altre parole, che qualsiasi assetto sociale pensabile, per garantire un benessere paragonabile a quello attuale, dovrebbe comunque affrontare problemi di organizzazione della produzione analoghi per complessità a quelli odierni.

In secondo luogo, l'attenzione a quello che Marx chiamò il general intellect del sistema capitalistico (anticipando di un secolo le idee della cibernetica sociale...), cioè qualcosa di molto simile a quello che oggi è comunemente definito "adattamento creativo" del sistema. Il che dovrebbe attirare l'attenzione su tutte le persone che quotidianamente fanno vivere e operare questo general intellect. Non potrebbere essere questa la chiave per interpretare in modo razionale e critico la posizione produttiva e organizzativa dei tecnici e degli impiegati, oltre che dei dirigenti, quadri, consulenti ecc.?

Terzo, e decisivo punto, l'idea di "rivoluzione" come conflitto fra rapporti di produzione e possibilità di ulteriore sviluppo delle forze produttive. Questa idea non dice nulla sul carattere violento o meno della rivoluzione (questione irrilevante in questo contesto), ma suggerisce di andare a vedere quanto gli assetti proprietari, di potere, di comando, legislativi ecc. siano in grado di rispondere con efficacia ai problemi produttivi e sociali che loro stessi suscitano, e quale sia la tendenza storica di questi problemi e di queste risposte.

Facciamo un esempio: quando, fra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, è stata proposta la motorizzazione privata basata sul petrolio (l'auto, l'autocarro) per superare i limiti del sistema precedente basato sulle ferrovie e sul carbone, il sistema dovette conquistare i campi petroliferi e garantire i rifornimenti. Molti popoli soffrirono guerre e invasioni, qualcuno arricchì in modo vergognoso, ma il sistema si riequilibrò a un livello produttivo più ampio.

Oggigiorno, non è evidente che ci sia un'analoga capacità di mantenere il controllo sugli effetti a raggio sempre maggiore e a termine sempre più lungo delle aumentate capacità produttive. Insomma, oggi possiamo considerare una delle maggiori forme di sfruttamento (non l'unica) il deterioramento delle prospettive del futuro e della sostenibilità dell'attuale forma di sviluppo economico.

Anche meno appariscente, ma più percepibile nella quotidianità della vita lavorativa, è la crescente deresponsabilizzazione di quadri intermedi dei dirigenti delle imprese. Le sempre maggiori complessità e variabilità delle relazioni produttive (che si materializzano nell'uso del telefono e degli altri sistemi informatici, come la rete internet, le applicazioni aziendali eccetera) rendono sempre più difficile verificare la validità delle decisioni e le conseguenze che ne scaturiscono. Si crea insomma un'asimmetria fra i rischi di una decisione sbagliata, che possono palesarsi subito, e i vantaggi di una decisione giusta, che possono essere difficili da dimostrare, o manifestarsi in tempi più lunghi, quando il decisore ha già cambiato posizione. In pratica, vediamo tutti che, nove volte su dieci, i dirigenti rifiutano di prendersi un piccolo rischio per la propria carriera anche a fronte di un vantaggio molto maggiore per l'azienda nel suo complesso. Ne consegue una cultura aziendale fortemente avversa allo spirito critico e all'investimento strategico, e altrettanto fortemente orientata al conformismo, ai trucchetti per imbellettare le situazioni, o, nel caso migliore, alla preferenza per le soluzioni di buona visibilità, ovvie, facili e poco costose, anche se scarsamente efficaci, al posto di iniziative meno ovvie, più impegnative e però potenzialmente più incisive. La vicenda dei mutui a rischio dimostra che l'asimmetria funziona anche in modo opposto: le organizzazioni tendono a premiare chi porta guadagni immediati anche a costo di rischi potenzialmente molto maggiori ma meno quantificabili e più dilazionati nel tempo. Insomma, la scarsità dell'informazione, che l'economista Joseph Stiglitz ha segnalato e analizzato per quanto riguarda il livello macroeconomico (ricevendo nel 2001 il premio Nobel per questo)*, opera sempre più fortemente anche a livello microeconomico, allontanando le organizzazioni aziendali dall'ottimizzazione produttiva.

Se questa lettura è giusta, ci troviamo di fronte a problemi che nascono dallo stesso livello di sviluppo di cui godiamo, e che sarebbero difficili da risolvere comunque, ma vengono aggravati e resi insolubili dai rapporti di potere e dalle forme organizzative attuali.

Il caso delle aziende globali come IBM è emblematico: i decisori in ultima istanza sono gli azionisti di maggioranza, che sono interessati soprattutto ai dividendi trimestrali, e che si sentono assai poco coinvolti dalle conseguenze di decisioni attuali che potrebbero manifestarsi fra cinque o dieci anni. E' come se i cittadini dissennati di un Paese votassero un capo di governo interessato solo agli affari propri, per poi organizzare una secessione o una fuga in massa all'estero quando le cose incominciassero ad andare male.

Se il sistema tende a essere sempre meno efficace nel garantire globalmente benessere, tende parimenti a essere sempre meno efficiente come organizzatore del lavoro. Ancora una volta il caso di IBM Company è emblematico: nonostante l'enorme aumento di capacità delle tecnologie informatiche, fatturato e valore aggiunto per dipendente sono rimasti sostanzialmente immutati negli ultimi dieci anni a livello mondiale (il risultato sarebbe peggiore se si tenesse conto dell'inflazione del dollaro). E questo nonostante i licenziamenti di massa, le enormi dismissioni, le esternalizzazioni, il decentramento verso Paesi a basso costo e bassa protezione della manodopera, l'abbandono del mercato dei prodotti di consumo di massa, il crollo dei costi di trasmissione, elaborazione, conservazione dei dati che in teoria avrebbe dovuto abbattere i costi amministrativi e gestionali. E non vale la giustificazione che nello stesso periodo i prezzi dell'informatica si sono enormemente ridotti, perché ciò potrebbe al massimo spiegare una riduzione del fatturato complessivo (che invece è aumentato sensibilmente), non certo la capacità media del dipendente di gestire gli affari.

Sembra insomma che il modello di impresa basato su investitori avidi e interessati solo al breve periodo che comandano un'organizzazione formata da individui con le stesse caratteristiche, abbia raggiunto il suo culmine e abbia incominciato la parabola discendente. Certo, per dimostrare questa ipotesi, bisognerebbe compiere una ricerca estesa sui misuratori di produttività di un gran numero di imprese, e tenendo anche conto che in genere i costi sociali e ambientali sfuggono alle rilevazioni. Inoltre bisognerebbe verificare se i Paesi che si stanno inserendo ora nella globalizzazione capitalistica sono portatori di nuovi modelli organizzativi o no. Per il momento, non pare che siamo di fronte a qualcosa di simile all'introduzione del toyotismo da parte dell'industria giapponese trent'anni fa. I nuovi arrivati sembrano piuttosto orientati ad aumentare esponenzialmente non solo la ricchezza (di una minoranza) ma anche i disastri (più democraticamente distribuiti), senza inventare nulla di nuovo.

Tutto ciò ci può condurre a rispondere in modo nuovo alla secca domanda iniziale. Per maggiore chiarezza e semplicità, lo faccio per punti.

1. Ogni lavoro ha una componente di sviluppo delle forze produttive e un'altra legata al mantenimento dei rapporti di produzione entro cui quel lavoro si svolge.

2. In generale, tanto più un lavoro richiede autonomia decisionale e responsabilità, quanto più l'importanza della seconda componente prevale rispetto alla prima.

3. Quindi, tranne che per i lavori più semplici e con autonomia esecutiva quasi nulla, tutti i lavoratori contribuiscono – chi più, chi meno – non solo a "fare" qualcosa, ma anche a "far funzionare" i rapporti produttivi. Questo significa negare alcune profonde convinzioni di chi risponde NO alla domanda iniziale, in particolare che l'identificazione dei dipendenti con i meccanismi organizzativi aziendali sia solo il frutto di un inganno o di un autoinganno. No, questa identificazione è basata su qualcosa di reale, su attività (o aspetti di attività) effettivamente compiute dai lavoratori. E questa osservazione vale soprattutto per i tecnici e gli impiegati.

4. Analogamente, il carattere doppio dell'attività lavorativa vale anche per gli imprenditori, l'alta direzione ecc. Nel loro caso, la tensione fra i due momenti è particolarmente forte, e porta normalmente a selezionare certi tipi di personalità e carattere rispetto ad altri (per esempio, coloro dotati di una forte propensione a mentire e a manipolare gli altri per favorire la propria carriera o i risultati immediati della propria azienda). L'immagine, in genere sgradevole, di questi personaggi non deve essere quindi vista come una loro caratteristica psicologica individuale, ma deve essere interpretata come la percezione sociale della contraddizione che incarnano e quindi dei pericoli a cui espongono la nostra sicurezza e il nostro benessere. D'altra parte, in base ai ragionamente precedenti, deve essere accettata l'idea che la funzione organizzativa e di strategia produttiva non sia una caratteristica del sistema capitalistico (come hanno pensato unanimemente i marxisti della II, della III e della IV internazionale, almeno finchè hanno pensato qualcosa), ma scaturisca dalla livello e dalla complessità delle forze produttive. Ovviamente, in un sistema basato su rapporti produttivi diversi, si svolgerebbe in modi altrettanto differenti.

5. Il concetto di sfruttamento classico (quello del Capitale di Marx, per intenderci) deve essere abbandonato senza ambiguità. Al suo posto, il termine può assumere un diverso e più forte significato: la differenza fra il benessere teoricamente ottenibile dal livello delle forze produttive disponibili, e quello effettivamente permesso dai rapporti di produzione vigenti. E in effetti, tutte le migliori lotte sociali, culturali e politiche degli ultimi decenni si sono già mosse in questo senso.

6. La conseguenze più importante per l'azione sindacale è un mutamento di impostazione delle relazioni con tecnici e impiegati. Deve essere abbandonata l'indifferenza verso il lato delle loro attività più legato alle problematiche direzionali, e al contrario si deve cercare di individuare, possibilmente con il loro contributo, chiavi di lettura adeguate al livello dei conflitti che vivono tutti i giorni nello svolgere la loro attività. Indubbiamente, questo è un compito molto, molto difficile. Ma ciņ verrebbe reso ancor più difficile, in Italia, se passassero ancor più estesamente le idee di Bonino, Ichino e soci, perchè, oltre allo scempio dei diritti e dei progetti di vita dei lavoratori, già largamente in atto, si distruggerebbe una delle poche possibilità di critica radicale all'attuale organizzazione del lavoro: chi avrebbe più il coraggio di dire qualcosa, con il rischio di trovarsi il giorno dopo in mezzo a una strada?

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Se guardiamo alla nostra esperienza sindacale in IBM, in cui questi temi, magari sotto traccia, sono presenti da decenni, possiamo avere un'idea delle sforzo necessario, e delle difficoltà che si incontrano. Solo da pochi anni ci siamo attrezzati per leggere, almeno superficialmente, il bilancio aziendale (peraltro non trasparente, in quanto non evidenzia mai il vero risultato economico di IBM Italia, che dovrebbe includere royalties, transfer prices e voci analoghe). Solo da pochi giorni è disponibile una prima analisi dettagliata di un'area critica da almeno un decennio in IBM Italia, le sedi periferiche. Da anni ci proponiamo di analizzare il documento della qualità aziendale, ed è sempre successo qualcosa di prioritario rispetto a quest'impegno. Non abbiamo mai analizzato la nuova politica dell'IBM globale di stimolare maggiormente i dipendenti a proporre soluzioni, anche utilizzando nuovi strumenti di partecipazione. A livello internazionale, siamo stati succubi della cultura del sindacalismo lamentoso e falsamente radicale di marca anglosassone. Tutta la tematica della politica della valutazione e premiazione individuale aziendale è da noi accuratamente evitata, come i gatti che stanno alla larga dalla pentola che scotta. Sulla formazione, il nostro intervento è palesemente insufficiente. E ogni volta che abbiamo cercato di coinvolgere le Organizzazioni Sindacali su questi temi, abbiamo ricevuto tante belle parole di incoraggiamento.

Ultimamente sto diventando un po' fatalista. Le svolte della consapevolezza politica e sociale dei popoli avvengono quando avvengono. Talvolta ci sono persone disposte a impegnarsi e talvolta no. Qualche volta i militanti sono all'altezza dei problemi e altre volte no. Ci sono organizzazioni che accettano la discussione sui fondamenti (molto raramente) e altre (quasi tutte, quasi sempre) no. Da ragazzo mi sentivo dire dai compagni del PCI: è meglio sbagliare insieme al Partito che aver ragione da solo. A me sembrava un'ottima ragione per starne alla larga. Oggi il PCI non esiste più, e chi deve ad esso la propria carriera politica cerca di farlo dimenticare. Ho sinceramente sperato che la FIOM fosse differente, grazie al suo radicamento sociale e alla sua ottima pratica democratica. Condizioni necessarie ma non sufficienti, evidentemente: i suoi dirigenti, miei coetanei purtroppo, stanno ancora togliendosi lo sfizio di muoversi come se fossimo negli anni Settanta. Meglio sbagliare in buona compagnia, come sempre.

Ma il conflitto fra ciò che il lavoro e l'intelligenza umana potrebbero fare, e quello che vengono costretti a fare, è sempre più forte.

Giovanni Talpone

31 marzo 2008.

* http://nobelprize.org/nobel_prizes/economics/laureates/2001/stiglitz-lecture.pdf