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Vedere anche: Jobs Act: NASpI Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego; Jobs Act: il contratto a termine e l'apprendistato;

Jobs Act: Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti

(D.Lgs. 4-3-2015 n. 23 - Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183)


A cura di A. Riboni, aggiornato al 13 marzo 2015

 

La nuova disposizione legislativa si applica esclusivamente ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 ed ai lavoratori che, dalla stessa data, hanno avuto trasformato il contratto di lavoro da tempo determinato ad indeterminato o che sono stati qualificati dal rapporto di apprendistato (confermati alla fine del periodo di apprendistato).

Il Governo a Presidenza Renzi, che ha promosso il provvedimento legislativo di cui al titolo (all’interno di un più ampio dispositivo di legge noto come Jobs Act), dichiara che il contratto a tutele crescenti non sostituisce le disposizioni previste dai Contratti Collettivi Nazionali di lavoro e dalle Leggi in materia di rapporto di lavoro subordinato, bensì si aggiunge ai medesimi; in altre parole le parti contraenti di un nuovo contratto di lavoro subordinato, ossia il datore di lavoro e il prestatore d’opera, possono scegliere tra i contratti nazionali di lavoro e il contratto a tutele crescenti.

La prima e più ovvia considerazione al riguardo consiste nel fatto che le parti non sono uguali, non hanno la stessa possibilità di scelta e questo soprattutto in una situazione, come quella attuale, di consistente disoccupazione; colui che cerca lavoro non si troverà di fronte a un datore di lavoro che gli lascia possibilità di scelta, pertanto, chi è in cerca d’occupazione, potrà solo scegliere tra restare disoccupato o accettare il contratto a tutele crescenti ben più conveniente per chi gli offre lavoro.

In ogni caso, questa dichiarazione del governo non trova confrerma nell'impianto legislativo e, pertanto, per gli assunti dal 7 marzo 2015 la disciplina applicata al rapporto di lavoro subordinato nel settore privato sarà esclusivamente quella del contratto a tutele crescenti.

Ciò che caratterizza il contratto a tutele crescenti è la non applicazione dell’art. 18 Legge 300/70, perciò la facoltà del giudice di reintegrare il lavoratore licenziato illegittimamente è limitata alla sola fattispecie del licenziamento discriminatorio; sono inoltre garantiti consistenti sgravi contributivi al datore di lavoro per 3 anni a partire dalla data di assunzione del lavoratore interessato.

Ma vediamo ora brevemente cosa succede alle tutele contro il licenziamento.

Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale.

Rimane in vita quanto disposto dall’art. 15 della Legge 300/1970 che vieta di licenziare un lavoratore “a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero”, i “patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso” e il licenziamento intimato in forma orale.

Il mantenimento di questa tutela esplicita intendimenti previsti dai provvedimenti di Legge già varati dal governo Monti e dal Ministro Fornero, e valgono le considerazioni già espresse a suo tempo da molti giuslavoristi e sintetizzate nel quesito che segue: quando mai un datore di lavoro, che vuole licenziare un suo dipendente, utilizzerebbe motivazioni che non reggerebbero in giudizio con la conseguenza di una dichiarazione di nullità e conseguente reintegro del lavoratore?

Per completezza d’informazione, è opportuno precisare che la possibilità per il giudice di ordinare la reintegrazione del lavoratore licenziato permane anche nei casi di licenziamento durante il periodo di tutela (es. primo anno di matrimonio o maternità) e di licenziamento disciplinare ove il fatto materiale contestato sia inesistente (la motivazione è falsa e/o non c’è stata la violazione della norma disciplinare che ha comportato il licenziamento).

Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa.

Sempre con riferimento al licenziamento individuale, la norma conferma la possibilità di licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa. E’ opportuno ricordare a che cosa si riferiscono queste fattispecie:

·         Giustificato motivo soggettivo: si ha quando il dipendente commette una grave inadempienza rispetto agli obblighi contrattuali (come prescritto dall'art. 1455 del codice civile); la differenza sostanziale dal licenziamento per giusta causa, consiste nella possibilità di prosecuzione del rapporto di lavoro nei limiti del periodo di preavviso;

·         Giusta causa: si ha quando si verifica una circostanza così grave da non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto lavorativo (art. 2119 c.c.); in altre parole, il datore di lavoro può recedere dal contratto senza l'obbligo di corrispondere il preavviso, né la corrispondente indennità; la giusta causa è un comportamento del lavoratore che costituisce una grave violazione ai propri obblighi contrattuali, così grave da ledere insanabilmente il rapporto di fiducia tra lo stesso e il datore di lavoro, al punto da rendere necessario un licenziamento in tronco senza preavviso;

·         Giustificato motivo oggettivo: si ha per ragioni che sono inerenti all'organizzazione del lavoro, all'attività produttiva e al regolare funzionamento dell'azienda e prevede la corresponsione del preavviso o della corrispondente indennità sostitutiva; in altre parole, ci si trova di fronte a eventi tali da impedire l'utilizzo di una determinata prestazione di lavoro, ovvero di chi la presta, per la realizzazione degli obiettivi aziendali cui essa è destinata; si ha anche nei casi di superamento del cosiddetto "Limite di Comporto", ovvero il periodo di malattia massimo concesso dai contratti collettivi in un determinato lasso temporale e/o per sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni cui normalmente è adibito.

La norma introdotta con il contratto a tutele crescenti prevede che “nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. In altre parole, se il licenziamento è illegittimo, perché le motivazioni addotte sono false, il datore di lavoro, che ha intimato il licenziamento, è semplicemente condannato al pagamento di un indennizzo ed è facile comprendere che, a questo punto, il gioco, ovvero il licenziamento, è fatto. Anche in questo caso, Fornero docet, con l’aggravante che, grazie alla nuova norma, non sussiste più l’obbligatorietà di coinvolgimento della competente Direzione Territoriale del Lavoro e della conseguente procedura concernente il tentativo di conciliazione che rimane, a tutti gli effetti, una possibilità per il solo datore di lavoro.

Un’altra perla è data dal fatto che, se il licenziamento è intimato senza indicarne la motivazione, ossia senza che siano specificati i motivi che lo hanno determinato (in violazione di quanto previsto dall'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all'art. 7 della Legge n. 300/1970), detto licenziamento rimane legittimo e il giudice può solo condannare il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità; in ultima analisi:

·         il datore di lavoro intima il licenziamento e non dice (scrive) perché (semplicemente comunica il licenziamento);

·         il lavoratore, per conoscere le motivazioni deve rivolgersi al giudice che, tutt'al più, sanziona il datore di lavoro per non aver motivato il licenziamento;

·         il licenziamento è, comunque, legittimo, a meno che non si configuri come licenziamento discriminatorio, durante il periodo di tutela o il fatto non sussista.

Una domanda sorge spontanea; perché il datore di lavoro dovrebbe motivare il licenziamento, se, per conoscerne la ragione, il lavoratore deve rivolgersi al giudice sperando ottimisticamente di ottenere esclusivamente un’indennità risarcitoria?

Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria. Vale, per quanto appena specificato, considerare che, perché vi sia la diretta insussistenza del fatto materiale contestato, dovremmo essere in presenza di totale imperizia del datore di lavoro e di chi lo assiste - sia esso un’associazione datoriale o un consulente del lavoro – per cui il fatto che dà origine al licenziamento è totalmente inventato e/o falso.

Nel caso di licenziamento collettivo (ovvero di licenziamento di un numero di lavoratori superiore a 4 nel medesimo territorio provinciale e nell'arco di 120 giorni) ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223 (procedura di mobilità per aziende che occupino più di 15 dipendenti), fermo restando la nullità nel caso di inadempienza consistente nella mancanza di comunicazione in forma scritta dell’avvio della procedura, il licenziamento è legittimo anche nei casi di violazione delle procedure di comunicazione agli interessati del licenziamento medesimo e dei criteri di scelta (scelta dei lavoratori in base alle esigenze tecnico/organizzative e priorità del licenziamento nei confronti di lavoratori con minori carichi di famiglia e minore anzianità aziendale) e il Giudice del lavoro, accertata la violazione, può solo disporre un’indennità risarcitoria.

Infine, fermo restando che siamo quindi di fronte a un contratto a tempo indeterminato che può, però, essere interrotto in qualsiasi momento, il termine crescenti è impropriamente associato al termine tutele, perché ciò che cresce è esclusivamente l’ammontare dell’indennizzo nel caso di licenziamento illegittimo (essendo esso collegato all’anzianità di servizio): forse che un indennizzo e/o risarcimento che dir si voglia può essere considerato una forma di tutela in conseguenza di un licenziamento illegittimo? .

Qui di seguito, ritengo utile rappresentare una tabella riepilogativa di tipo tecnico riguardante tutto ciò che è stato fin qui spiegato.

Argomento

Disciplina

CAMPO DI APPLICAZIONE

Lavoratori che rivestono la qualifica di operaio impiegato o quadro assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, anche in caso di conversione a tempo indeterminato di contratti a tempo determinato o di apprendistato.

LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO, NULLO E INTIMATO IN FORMA ORALE

Il licenziamento è nullo e si applica la reintegra del lavoratore. Il lavoratore ha anche diritto ad un risarcimento commisurato all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del tfr, corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione.

LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO O GIUSTA CAUSA ILLEGITTIMI

· Il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.

· Nelle ipotesi di licenziamento disciplinare in cui sia dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore alla reintegrazione e al risarcimento, commisurato all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del tfr, corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione. La misura del risarcimento non può eccedere le 12 mensilità e deve includere i contributi previdenziali e assistenziali.

LICENZIAMENTO CON VIOLAZIONI PROCEDURALI O DEL REQUISITO DI MOTIVAZIONE

Il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità.

OFFERTA DI CONCILIAZIONE

Al fine di evitare il giudizio, il datore di lavoro, entro 60 giorni dal licenziamento, può offrire al lavoratore, innanzi ad una commissione istitutita presso la D.T.L. o in una delle sedi conciliative previste dal codice civile, un importo non imponibile e non assoggettato a contribuzione pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità. L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto e la rinunzia all’impugnazione del licenziamento.

LICENZIAMENTO COLLETTIVO

· In caso di licenziamento collettivo intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio previsto per i licenziamenti nulli.

· In caso di licenziamento collettivo effettuato in violazione delle norme procedurali e dei criteri di scelta, si applica il regime delle tutele crescenti. Il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.

Evito per brevità di richiamare il dibattito copioso sull’utilità del contratto a tutele crescenti, ossia sul vantaggio di questa nuova forma contrattuale per la crescita dell’occupazione; gli imprenditori dovrebbero stare sereni e assumere personale con maggiore tranquillità sapendo di poter licenziare in caso di difficoltà economica e/o di mercato: la storia insegna che, oltre alle numerose possibilità di licenziamento sia individuale che collettivo già previste dal nostro ordinamento (anche dopo la riforma Fornero), anche i Contratti di Formazione Lavoro prima e i contratti di Apprendistato successivamente, hanno lasciato mano libera per assunzioni a basso costo per gli imprenditori e con piena possibilità di rescissione del rapporto di lavoro … e la disoccupazione è comunque aumentata. Anche la tesi per cui finalmente i lavoratori dipendenti perderanno privilegi che impediscono a tutti gli altri di trovare un posto di lavoro più o meno stabile, non merita di essere commentata se non per dire che, finalmente per il Presidente Renzi, tutti saranno precari e senza visibilità per il loro futuro.

La speranza è che il lettore si informi bene riguardo alle riforme che sono state varate e che sono in via di realizzazione e comprenda le devastazioni che sono in atto nel mondo del lavoro.